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Dieudonné e i demoni dell’antisemitismo francese

Le vicende legate a Dieudonné, il comico francese antisemita, mi fanno ritornare in mente una serie di ricordi personali. Nel 1989 ero uno studente della scuola di giornalismo a Parigi. Durante uno stage, mi mandarono con il giornalista politico del quotidiano dove mi trovavo, Le Monde, a seguire un comizio di Jean-Marie Le Pen in un palazzetto dello sport. Lui, dal palco, iniziò a parlare male di Simone Veil, allora una delle donne più in vista della politica francese, sottolineando che era ebrea. La gente iniziò a urlare “sporca ebrea”, “puttana”. Tutti insieme, una rabbia improvvisa.

Alla scuola di giornalismo, che frequentavo, un compagno di studi a un certo momento fece la lista dei compagni ebrei, la scrisse su un foglio, per “fare il conto”, diceva lui. Per me, che venivo dall’Italia e in più dalla provincia di Livorno, una città con una comunità ebraica importante, quell’antisemitismo era sorprendente, non capivo perché… Dopo, la lunga frequentazione con la Francia mi ha portato ad assistere a forme di antisemitismo più o meno esplicito in tanti altri casi. Ancora oggi mi chiedo: perché tanta rabbia contro gli ebrei? Forse il fatto che la comunità sia così numerosa (quasi 500mila persone, la più grossa d’Europa) rende più probabili manifestazioni di ostilità. Lo so, è una spiegazione banale. Sarà anche che la Francia, un Paese socialmente molto a compartimenti stagni, un covo di frustrazioni (ora poi con la crisi…), è un terreno ideale perché si vada a scovare capri espiatori utili per sfogarsi. È così anche in Italia e altrove in Europa, con gli immigrati. Ma lì una delle leve utilizzata per “incazzarsi con qualcuno” è l’antisemitismo, non c’è niente da fare.

Nel 2010 intervistai per Il Sole 24 Ore Gérard Garouste. È un pittore incredibile. I suoi quadri sono intensi, spesso un pugno nello stomaco. Aveva da poco scritto un libro autobiografico (L’intranquille), dove raccontava anche il suo essere un bipolare, l’alternare per gran parte della sua vita periodi tranquilli e altri di follia, dove fugge, diventa aggressivo, va fuori di testa. Mi prepararono al fatto che anche durante le interviste poteva essere strano. Ma quella mattina di sole a Parigi Gérard, che adora l’Italia, fu immensamente carino con me. Mi raccontò tante cose della sua vita, restammo a parlare molto al di là del previsto. Anche di suo padre, che era morto da poco, a più di ottant’anni. Nella sua vecchia agenda, al 16 giugno 1940, due giorni dopo l’arrivo dei tedeschi a Parigi, Gérard aveva letto due parole, scritte allora da suo padre: “Finalmente liberi”. Ebanista, riuscì a impossessarsi durante la Seconda guerra mondiale di un laboratorio, proprietà di ebrei, dove suo padre, il nonno di Gérard, aveva lavorato, “aveva sgobbato per quegli sporchi ebrei”, diceva lui.

Una patetica rivincita… Quell’uomo fu un antisemita fino alla fine dei suoi giorni. Gérard mi raccontò gli insulti che pronunciava contro gli ebrei, come lui fosse stato educato. E come fosse riuscito poi a ribellarsi a quel padre-padrone, anche se apparentemente non dei suoi demoni, non di tutta l’infelicità respirata nella casa dei genitori. In seguito, quasi per contrappasso, Gérard Garouste ha imparato l’ebraico, ha studiato la cabala (presente anche visivamente nelle sue opere) e ha sposato un’ebrea, Elisabeth, diventata nota designer, che da una vita, ora con i figli, ormai adulti, sopporta con amore, tanto amore le altalenanti fasi dell’esistenza del marito, ipersensibile ma segnato pure dall’odio atavico e irrazionale del padre contro gli ebrei. Perché al di là di tutto, anche delle corse improvvise all’ospedale o degli irriducibili spleen di Gérard, l’amore ha trionfato sull’odio. Su quegli stupidi, schifosi rancori.