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Giornalismo, censura e polemiche in salsa di soia

Cina-giornalismoSi preoccupano i giornalisti che lavorano in Cina. E ultimamente si preoccupano anche i lettori. Secondo New York Times e Financial Times, infatti, Bloomberg avrebbe impedito l’uscita di un’inchiesta sui legami di uno degli uomini più ricchi della Cina con il Politburo. E poi un’altra sui figli della nomenklatura che lavorano nelle più grandi banche straniere. Il motivo? La paura di essere cacciati dal suolo cinese.

Il caporedattore Matthew Winkler avrebbe giustificato la scelta paragonando la situazione a quella dei media durante il nazismo che dovevano operare autocensura per continuare a lavorare.  Bloomberg ha poi smentito tutta la storia. Nessuno ha fatto menzione dei 20mila dollari che costa ogni sottoscrizione alla rivista economica e del danno economico che questa ne ricaverebbe se si trovasse a dover chiudere i suoi uffici in Cina.

E sempre negli stessi giorni Paul Mooney, reporter attualmente di Reuters ma che lavora in Cina da 18 anni, si è visto negato il visto. Il divieto di rientrare in Cina, a suo dire, è diretta conseguenza della sua continua copertura di storie che sui diritti civili.

Bloomberg e New York Times, inoltre, continuano a essere oscurati in Cina da quando hanno pubblicato – rispettivamente – le inchieste sulle ricchezza dell’attuale presidente Xi Jinping e dell’ex premier Wen Jiabao. Ovunque nel mondo sono le inchieste sulla ricchezze della classe dirigente ha creare problemi.

E la brutta aria non riguarda solo i giornalisti stranieri. Alla fine del mese scorso Chen Yongzhou, giornalista del New Express, è stato arrestato con l’accusa di “danneggiare la reputazione commerciale” di una società di Stato. Il suo giornale si è ribellato e ha chiesto a lettere cubitali dal suo giornale che venisse liberato. Tre giorni dopo la tv di Stato lo ha mostrato che ammetteva di aver preso denaro per aver pubblicato un gran numero di articoli. Il suo giornale si è scusato.

“Nonostante buona parte della storia rimanga sconosciuta, l’arresto di Cheng Yongzhou è drammattico e al tempo stesso ironico. Dobbiamo accettare il fatto che mina la credibilità stessa del giornalismo che viene rappresentato come alla ricerca di un padrone”. Ha scritto la tigre del giornalismo cinese Hu Shuli dalle pagine della sua rivista economica Caixin.

La signora Hu, che è una giornalista capace di lasciare un giornale con un terzo della redazione per fondarne un altro pur non subire intimidazioni, continua: “In tutta questa storia rimangono parecchi punti da chiarire. Ma per il giornalismo in genere è una vergogna. Le condizioni in cui operano i giornalisti cinesi sono addirittura più dure di quelle del resto del mondo. I media in Cina sono spesso intrappolati dalle leggi e il caso di Cheng deve farci riflettere. Oltre all’autodisciplina è importante ripensare il sistema di leggi che circonda il giornalismo. Se il governo lo farà, sarà più facile per noi camminare sulle nostre gambe“.