Non esiste un treno più veloce della nostalgia, ma gli Shikansen giapponesi ci vanno vicino. Sono i più veloci al mondo, i più frequenti (per andare a Kyoto ce n’è uno ogni venti minuti), i più cari (80 euro sola andata, battuti perfino i Frecciarossa), i più puntuali (qui coi Frecciarossa non c’è partita), e naturalmente i più gentili. Entrando nel vagone, il controllore si presenta con un inchino, e se ne va con un altro inchino. Poi non controlla nemmeno i biglietti, perché è tutto già registrato via computer. Viene giusto per inchinarsi.
Poco più di due ore di ininterrotto paesaggio urbano, lungo la costa non si vede un millimetro di campagna superstite, ed eccoci nella Gerusalemme nipponica. Celebre per i suoi templi, Kyoto è la meta più tradizionale di un paese proiettato nel futuro eppure, non fosse che per un senso di colpa, devotissimo alla tradizione. Infatti già in stazione notiamo una massa di persone impressionante di comitive, scolaresche, famiglie e coppiette. All’ufficio informazioni ci spiegano il perché. Abbiamo beccato uno dei rarissimi ponti di questo popolo stakanovista, il Weekend della Cultura, e inevitabilmente mezzo Giappone si è spostato proprio qui, con organizzazione paramilitare. Risultato: all’ufficio informazioni non risulta una camera libera in tutta la città, soprattutto a buon mercato.
Non ci scomponiamo, siamo viaggiatori consumati, ci vuole altro per impensierirci. Prendiamo un taxi e gli chiediamo di portarci in qualche piccolo hotel di periferia; il taxista, gentile come tutti i giapponesi, ci carica; ma incapace di comprendere ogni lingua che non sia il giapponese come quasi tutti i giapponesi, ci fa fare un giro dell’oca per poi riportarci alla Stazione. Ancora una volta non ci scomponiamo, e chiediamo al taxista di portarci a un’agenzia di viaggi. Folla oceanica anche qui.
Prendiamo il numeretto, aspettiamo un’oretta e finalmente emerge che all’agenzia non risultano camere libere in Kyoto, e nemmeno nella vicina Osaka. L’unica possibilità a basso costo sarebbe il Capsule Hotel, una vera e propria capsula dove, ci spiegano, ci sono tutti i confort, però lo spazio vitale è più o meno quello di quando si deve fare una Tac. Oppure, se siamo disposti a spendere qualcosa in più, ci sarebbe una bella camera in un ryokan, vale a dire un albergo tradizionale giapponese. L’idea ci alletta, fa molto cittadini del mondo. E allora crepi l’avarizia, e vada per il Ryokan.
Abbandonate le scarpe nell’atrio, superato un cancelletto di legno, una coulisse foderata di carta di riso si apre sulla nostra camera, spoglia ma elegante. Colpo d’occhio incantevole. Ha da venì l’Ikea. A un’analisi più meditata,
Per la prima volta accettiamo fino in fondo il nostro destino di turisti – se per turista si intende chi è destinato a restare in superficie. Ormai lo abbiamo capito. Giapponesi non si diventa, si nasce. E si resta. Nessuno è giapponese quanto i giapponesi, e fin qui ci eravamo arrivati; ma ora capiamo che i giapponesi sono più giapponesi di quanto gli italiani non siano italiani e perfino di quanto gli inglesi non siano inglesi (infatti, anche loro hanno la guida a destra).
Gli incontri con i clienti avvengono solo su invito e (scopriremo poi) dietro pagamento di cifre che partono dai settantamila yen in su per una serata. Questa è la prova, se mai ce ne fosse bisogno, che il sesso resta la merce più a buon mercato che ci sia, a Kyoto come ai Parioli (soprattutto ai Parioli). Saper versare il tè, e far desiderare che la tazza di tè non finisca mai; questo sì che non ha prezzo.
(22-continua)