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Usa, la via mite della presidenza Obama

Un recente viaggio negli Usa mi ha consentito di vedere, ascoltare, fare qualche domanda, trovare (non sempre) qualche risposta. Prima di questa escursione mi domandavo, come molti, se ci fosse una differenza fra Barack Obama, l’uomo, il leader, la sua qualità, unica nel mondo politico (non solo in America) e i risultati finora raggiunti.   

La conclusione che mi sento di trarre è che Obama ha dato una poderosa spinta all’America, una spinta materiale (torna con evidenza il benessere, anche se il “canyon” che separa ricchi e poveri resta profondo), una spinta morale (torna la parola “solidarietà”, “l’attenzione a chi è scivolato in fondo”, la lotta alle discriminazioni delle persone, dei gruppi, degli stili di vita, il sostegno alle scuole, il famoso progetto di riformare la sanità per estenderla a tutti, che ora si chiama Obama-care).   

Ma la tempesta infuria (organi di stampa e illustri commentatori inclusi) come se Obama fosse un altro George W. Bush, ma più debole e più indeciso. Lo sentirete dire molto in giro: “Obama perde attenzione e popolarità”. Qui è il caso di ricordare che, nonostante la perdita di punti nei sondaggi, Obama ha il più alto indice di approvazione di qualunque altro presidente americano, dopo Roosevelt. C’è una rivelazione in questa curiosa discordanza non tanto fra i due dati, quanto sulla lettura e interpretazione dei due dati. La rivelazione, o almeno il sospetto, è che l’America intervistata per i sondaggi e quella che sostiene Obama nella sua lotta per la riforma della sanità, non siano la stessa America.   

La prima è ciò che resta dei criteri sondaggistici di un tempo, che formava i gruppi e usava i contatti in un Paese molto diverso, e intorno a livelli culturali, ceti e classi sociali che non hanno più riferimento con l’America dopo la crisi e l’America dopo il computer. La seconda è un’America vastamente multiculturale, con una presenza, non solo nei lavori inferiori, ma ormai anche direttivi e imprenditoriali, di neri e ispanici (oltre al ruolo crescente degli asiatici). Obama governa questa seconda America, che conosce bene, di cui fa parte, e che gli resta legata. Ma non è detto che in questo mondo nuovo, quasi del tutto privo dei vecchi giudizi e pregiudizi di ogni genere, gli esperti di opinione pubblica abbiano trovato il filo e sappiano orientarsi con strumenti e adatti. Certo non coincidono con il movimento rabbioso della destra Tea party che è stata a un passo dallo scegliere la distruzione del Paese, pur di colpire un presidente nero troppo ostinato sulla garanzia delle cure mediche per tutti e troppo indifferente alle esigenze del mondo potente e immensamente ricco delle Assicurazioni. Un mondo privato, dotato, prima di Obama, di una strana esclusiva di vita e morte degli americani, decidendo (negli uffici, non negli ospedali) il medico, le cure e il momento giusto per spendere tutto, quando costa troppo. La gente muore, come vuole il destino, non sempre i parenti si indignano. Ma se lo fanno, e vanno in tribunale, il potere forte delle assicurazioni sa, con il proprio esercito di avvocati, come dissuadere gli ostinati.   

Ci sono problemi o errori nella pur prodigiosa vittoria di Obama, che ha tenuto duro anche quando stava diventando impopolare? Ci sono. La trovata è questa: se vi occupate solo di questo aspetto, e lo vedete ripetuto continuamente nei giornali e telegiornali, ogni giorno avrete l’impressione che, invece di vincere, Obama ha fatto fallimento. Questo non vuol dire che i media sono anti Obama. Ma la destra fornisce una immensità di materiale negativo, i media hanno bisogno di materiale perciò pubblicano. Spostiamo ora per un momento agli interventi (o non interventi) internazionali. È vero che Obama non ha preso il comando dei “volonterosi” o degli “alleati” o delle già esistenti strutture, come la Nato, in situazioni gravi e ben visibili agli occhi del mondo, come la Siria.   

Nel caso della Siria Obama ha come nemici sia gli interventisti che gli avversari di ogni iniziativa possibile. La sua condanna delle armi chimiche e il suo annuncio di imminente intervento ha reso possibile la sequenza che, con la partecipazione della Russia, ha evitato il peggio. Ma non sarebbe mai accaduto senza l’annuncio americano.   

Quell’annuncio è condannato da chi voleva l’intervento armato (perché non c’è stato). Ed è condannato da chi rifiuta la guerra perché la guerra, comunque, è stata annunciata. Sfugge del tutto agli uni e agli altri la visione di Obama. Non c’è più la potenza mondiale che non deve rendere conto e agisce trascinando consenso quando appare opportuno. Esiste la nuova strada di una potenza ragionevole che non è né interventista né isolazionista, piuttosto, come dimostra anche l’abbassamento di tensione con l’Iran (e un possibile cambiamento in quel Paese, ancora incerto, ma inedito) c’è un impegno ad essere presenti e a partecipare facendo le veci delle Nazioni Unite che, il più delle volte, continuano ad essere latitanti. Obama ha fatto in modo che si sappia che non c’è alcun ritiro dagli affari del mondo ma non c’è non ci sarà alcuna ripetizione di errori come Afghanistan e Iraq.   

Resta il problema dei droni. Il caso dei droni mostra lo stato selvaggio dei mondo. Senza, vuol dire niente, dunque un immenso favore a chi aggredisce e a chi invoca la guerra come sola risposta. Ma la guerra vuol dire un disastro immensamente più grande che tende a non finire. Qui non si stratta di un male minore, ma di un modo di non fare la guerra. È partendo dal riconoscere questo punto che si deve risalire all’indietro per trovare dove, e con la forza di quale istituzione, si può fermare la violenza armata davvero e per sempre, senza abbandonare il mondo alla libera iniziativa degli aggressori. È qui che sarà giudicato Obama. Intanto, se lui non ci fosse, un mondo violento sarebbe vuoto. Oppure occupato da armate senza controllo.

il Fatto Quotidiano, 27 Ottobre 2013