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Pd, regole ‘anti Renzi’ per evitare guai a Letta. Così accadde con Veltroni-Prodi

Dietro la proposta della "vecchia guardia" del partito di far votare il segretario solo dagli iscritti, riducendo le chance del sindaco di Firenze, aleggia sopratutto il possibile dualismo tra il premier in carica e un capo del partito con ambizioni di premiership. Lo stesso primo ministro dice: "Il segretario deve fare il segretario". Nel 2008, dopo la nascita del Pd, la strada tracciata da Veltroni sancì la fine di Prodi

Non può dir meglio che “il tempo del congresso è ora”, il segretario del Partito democratico Guglielmo Epifani. Ché nel corso della direzione riunita nella sede romana di largo del Nazareno sono emerse più o meno esplicitamente le questioni che fanno discutere e dividono il partito non solo in relazione alle controverse regole e le scadenze congressuali, ma anche riguardo alla partecipazione della principale forza politica di centrosinistra al governo di larghe intese guidato da Enrico Letta.

Un rapporto che, per quanto consacrato dall’alto patrocinio del capo dello stato Giorgio Napolitano, rimane tutt’altro che agevole tanto per la classe dirigente quanto per il corpo militante del Pd. Un legame, quello col governo di larghe intese, incalzato a breve dalle incognite prospettate dall’imminente sentenza della Corte di cassazione – che martedì 30 luglio è chiamata a esprimersi in merito al processo Mediaset e la condanna comminata in appello a Silvio Berlusconi –, ma sul quale in prospettiva aleggia sopratutto il possibile dualismo tra il premier in carica e il futuro segretario del Pd, specie nel caso in cui questi fosse il sindaco di Firenze Matteo Renzi.

Anche in considerazione del precedente: quando cioè Walter Veltroni divenne primo segretario del neonato Pd, assestando con ciò un colpo mortale alla già pericolante tenuta del secondo governo Prodi. Per quanto minato sin dal primo momento da una maggioranza flebilissima al Senato, poi asfissiata dalla fuoriusciscita di Clemente Mastella e dai dissensi a sinistra, a sancire il tramonto politico dell’Unione prodiana furono proprio la nascita del Partito democratico e la conseguente volontà da parte di Veltroni di affrontare le elezioni esaltandone la “vocazione maggioritaria” e senza perciò ripetere coalizioni troppo disomogenee; prospettiva a sua volta condivisa da Fausto Bertinotti, nel tentativo infruttoso di dar vita a una sinistra che andasse oltre il perimetro di Rifondazione. Una scommessa persa dall’ex sindaco di Roma nel 2008, ma che oggi invece potrebbe essere proprio la bussola adottata dal sindaco di Firenze Matteo Renzi per orientare la propria sfida alla segreteria del Pd e di conseguenza alla guida del governo.

Se infatti la direzione del Pd non ha potuto far altro che rimandare le decisioni sul congresso è proprio in relazione al rapporto tra partito e governo. Prima di tutto per l’attesa sentenza della Cassazione, che in caso di condanna di Berlusconi potrebbe rendere difficilissima sia per la base che per i dirigenti la partecipazione al governo. Ma tutta le questioni delle regole congressuali rimandano a loro volta al problema del governo, a cominciare da quella relativa al ruolo del segretario e quello del candidato premier, che la burocrazia in carica vuole tenere distinti, mentre Renzi e i renziani – che vanno allargandosi anche in seno agli organismi dirigenti attuali – guardano a una segreteria che apra la strada alla sfida di governo aggiornando il profilo politico del partito. Fuori dai denti: una leadership che conduca il Pd a tentare da solo la sfida elettorale, realizzando quella “vocazione maggioritaria” mai realizzata effettivamente.

I timori di Letta – Chi se ne rende conto meglio di tutti è proprio Letta. “Le ragioni per cui è nato questo governo di servizio e di necessità sono ancora presenti come tre mesi fa”, sostiene. Secondo lui “il nostro campo da gioco delle istituzioni non è agibile” a causa della legge elettorale, del bicameralismo e del numero di parlamentari. “Ricostruire il campo da gioco senza demolire il sistema”, come Letta rimprovera invece ai 5 Stelle, è quindi il cuore della partita delle riforme che “sta nel dna del Pd”. Sotto questo profilo “le larghe intese sono l’unica soluzione che abbiamo per restituire al paese l’assetto bipolare in cui il Pd possa presentare una proposta riformista e vincente per quando il campo sarà tornato agibile”. In quest’ottica per Letta ”serve un segretario che lavori a preparare un partito che quando ci saranno le nuove elezioni sia pronto a competere e a vincere”. A tal fine “se stiamo uniti, a noi non ci batte nessuno”, sostiene il premier, mentre “se pensiamo di giocarci partite in modalità che non sono rispettose del nostro stare insieme, siamo più deboli”. Frattanto per l’allievo di beniamino Andreatta richiama il partito a partecipare alla scrittura del programma in vista della legge di stabilità e del semestre di presidenza italiana della Ue: “Il Pd proponga la sua e la nostra visione dell’Italia, su temi come lavoro scuola e cultura”. Insomma, conclude Letta “Serve un Pd che sia esigente verso il governo, che alzi l’asticella”.

Congresso a novembre – Ma Letta probabilmente si augura anche che il Pd non lo prenda troppo in parola, che in futuro non alzi troppo l’asticella mettendo a rischio il suo governo. E colui che più di tutti può farlo è Matteo Renzi. Difatti la direzione è girata tutta intorno al fantasma della sua candidatura – che al momento rimane virtuale – affrontando le questioni relative al congresso e alle candidature. Per Epifani “serve un segretario che si occupi del partito” più che aspirare alla premiership. ”Il congresso partirà dai congressi di circolo, locali e regionali – spiega il segretario – Dopo saranno formalizzate le candidature a segretario nazionale”. Tramonta quindi l’ipotesi di un rinvio delle assise al prossimo anno, come sarebbe piaciuto a quella parte del gruppo dirigente ex ds e ex ppi intenta in primo luogo a sostenere Letta. Il 14 settembre si terrà l’assemblea nazionale per approvare l’agenda congressuale. Proponendo come data per il congresso il 24 novembre, è Dario Franceschini che si incarica del tentativo di arginare lo straripare del rottamatore fiorentino: ”Il segretario lo eleggano solo gli iscritti – afferma – le primarie aperte sceglieranno il candidato”.

Su questo punto, però, il gruppo dirigente ha dovuto scontare il dissenso di tutti i candidati alla segreteria, a cominciare da Gianni Cuperlo, l’ex leader della Fgci a lungo collaboratore di Massimo D’Alema, ritenuto come il preferito dalla leadership in carica. Cuperlo si dichiara inoltre contrario “alla presentazione delle candidature nazionali dopo i congressi regionali” prospettata da Epifani: “Dobbiamo eleggere il segretario, se si cambiano le regole dobbiamo farlo insieme – dice – Se non c’è accordo su ruolo segretario-premier decida il congresso”. Parole applaudite in platea da Renzi che, tenendo fede alla promessa di silenzio stampa, lascia poi la direzione senza fare commenti, ma non del tutto sorridente. Mentre Roberto Giachetti rimprovera a Franceschini di esser stato “troppo spregiudicato: per elezione segretario – dice polemico – mi limiterei più prudentemente a dipendenti Pd e staff ministri”. Fatto sta che “abbiamo stoppato il tentativo di golpe”, si compiacciono i renziani. “Sulla relazione del segretario c’è un punto di certezza che è la volontà di fare il congresso nei tempi previsti dallo statuto”, osserva Lorenzo Guerrini. Ma al tempo stesso i renzini hanno preso le misure del fronte tutt’altro che esile che si oppone alla segreteria del sindaco di Firenze. Tanto è vero che dopo la direzione l’area renziana si è riunita in separata sede per mettere a punto le prossime mosse in vista della direzione aggiornata al 31 luglio per il voto.