Società

Il linguaggio della vita vera

La rubrica doveva raccontare la vita, uh sai che novità, eppure mi sentivo molto audacemente una specie pioniera in quella redazione di provincia, che sussultava per un abigeato al massimo o per aver rimediato la testina di un serial killer di caprette; stentavano a capirmi, qualcuno tra i collaboratori parlava solo in dialetto e digitava male la password, qualche altro batteva feroce tutto il suo maldestro impegno civile su una tastiera obsoleta, ma ostinata a procedere verso l’abisso perché no.

La mia rubrica tuttavia mi rendeva superba, è mia, avrei voluto urlare al mondo. Ero sciocca, era bello esserlo, della serie “eravamo felici, e non lo sapevamo” (plurale buttato lì tanto per non scendere in personalismi), aggiungerei anche “un po’ tonti (e non lo sapevamo)” . Certi pomeriggi, seduta sulla panca del tempio, il mondo capovolto tornava a posto (spiavo le persone, dovevo scrivere i miei pezzi, di solito sul nulla ecco tutto, cioè la vita ordinaria, altro che storie), allora intercettavo il passo breve e fiero della maga, una donna bruna, di mezza età; mi aveva predetto le tre isole, le scelte, le separazioni; e c’era il poeta, l’ebreo di Ortigia; o il pittore di tegole, l’artista internato per anni, all’angolo del corso, scosso da misteriose invettive, di cui nessuno si curava. Rivedevo tutti. Klauss, austriaco, barba bianca e lucida. Tereza, Jolka. I polacchi delle case occupate. Guardavo da un’altra parte.

Avrei dovuto usare un linguaggio adeguato: alla storia, non alla rubrica. Dovevo scegliere, delle due l’una: o la rubrica o la vita vera. Non scelsi ovviamente. Come potevo raccontare di Klauss senza calarmi per davvero nel regno dei morti viventi? Bisognava scrivere e non con le mani da signorina, giusto. Sicché osai: “Quando a Wojciech il connazionale Marcin ridusse in pappa il suo fiero profilo polacco, Klauss caricò l’ingombro informe sulle spalle, lo trascinò al parco, abbandonandolo sulla panca. Klauss stava lì a guardare il faccione slabbrato di un ex becchino di Chelm. Avrebbe dunque finito di urlare la notte, la bestia, se andava bene, avrebbe steso le gambe per sempre”. Era un linguaggio possibile. Sei fuori, mi disse un tale, un collega. Sei un purista, lo accusai. Cosa? Nulla, lascia perdere. Dovevo raccontare la mia città, che poi era una revisione opportuna delle cose, di quel che fuggiva oltre, sotterraneamente, del luogo dove avevo dimorato a lungo. E il giorno andava e anche certi pomeriggi si consumavano seduta sulla panca del tempio.

(continua)