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Cooperazione: la soluzione è ‘autonomizzare’

Qualche giorno fa ho pubblicato un post su un grande travaglio che si vive, vivendo in un posto dalla povertà tanto estrema. Chi aiutare? Quando aiutare? Che cosa significa autonomizzare (to empower, in inglese – non riesco a rassegnarmi all’idea che questo termine sia praticamente intraducibile, in italiano) e qual è la sua relazione con la compassione?          

Innanzitutto, qualche precisazione fattuale sul paese in cui mi trovo.

La Repubblica Democratica del Congo, 2.3 milioni di kilometri quadrati (quanto Portogallo, Spagna, Italia, Francia, Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Germania, Danimarca, Austria e Polonia messi insieme), ha una popolazione di 67.7 milioni, di cui solamente il 40% vive in centri urbani. Il 71% dei congolesi vive sotto la soglia di povertà e nel 2011 il reddito pro-capite annuo era di 190 $, meno di mezzo dollaro al giorno (0,3 $, poi, se si aggiusta la moneta al costo della vita). Solo il 27% della popolazione rurale ha accesso all’acqua potabile. Il 43% dei bambini sotto i 5 anni è malnutrito e 1 su 6 muore prima dei quinto compleanno.

Le donne con cui lavoro, circa 2.600, non hanno accesso e/o non controllano alcuna risorsa economica o quasi, vengono talvolta ripudiate dai loro mariti e, se rimangono vedove, difficilmente ereditano qualcosa, perché spesso i loro matrimoni non sono registrati di fronte allo Stato. I loro figli vengono sistematicamente rigettati da scuola perché non riescono a pagare la quota d’iscrizione mensile, e dal medico ci vanno solo quando hanno qualche soldo per pagare, non quando ne hanno bisogno.

Fronteggiare la miseria non è facile, mai. Lo è ancora meno quando la povertà, la lotta per la sopravvivenza è tanto diffusa da rappresentare la sfida quotidiana per la grande maggioranza della popolazione; quando si tratta della regola, e non dell’eccezione. Qui i ricchi, spesso coinvolti nel business, legale o meno, di minerali, sono pochi e ricchissimi. I poveri sono tanti e sono davvero poveri.

Suggerire di “spogliarsi del superfluo” è spesso un giusto monito, ma davvero si può pensare che esista un superfluo che può bastare per alleviare le sofferenze, le enormi sfide di questa gente? O come selezionare chi aiutare e chi no? Come valutare se è più drammatico rimanere vedova, avere 10 figli da un uomo che non fa altro che bere, o essere violentata e non trovare uno sposo? E’ più difficile sopravvivere quando si ha un marito invalido o quando ti si rompe una gamba, all’ambulatorio a un’ora di cammino non mettono gessi, e coltivare con una gamba rotta su per quei ripidi pendii è davvero impossibile? Si è più in difficoltà quando si organizza un matrimonio e un funerale, entrambe celebrazioni fondamentali nella vita di questi villaggi, e carissime da organizzare? E’ più importante mangiare o curarsi?

In secondo luogo, purtroppo è vero, tante genti sono passati di queste terre e, con la scusa dell’aiutare, del civilizzare, hanno sfruttato, distrutto, reso dipendenti, razziato e accumulato enormi ricchezze. Non credo proprio di essere una di queste persone. Credo nel progetto su cui lavoro perché sostiene associazioni autonome, che prendono decisioni che, personalmente, non sempre capisco né condivido, ma che sono loro, gli appartengono. Non si tratta esattamente di microcredito, ma di una migliorazione del sistema, diffuso in quasi tutta l’Africa, del sistema di crediti rotativi che tutti, poveri e non, spesso usano per avere di tanto in tanto accesso a dei piccoli (o non così piccoli) capitali.

Credo nel progetto in cui lavoro perché i membri mettono 10 centesimi di dollaro alla settimana in una cassa solidale e decidono quali sono gli eventi lieti e funesti della vita per cui aiutarsi, farsi un dono. Credo nel progetto in cui lavoro perché le donne identificano nell’accesso al capitale una delle loro più grandi necessità, e io non mi permetto di giudicare i bisogni altrui, sopratutto quando vivono una vita tanto diversa dalla mia. Credo nel progetto in cui lavoro perché le donne, non io, non una qualsiasi persona esterna, dicono che le abbia aiutate a sentirsi utili nella loro famiglia e comunità, a migliorare la propria vita, a poter mandare i bambini a scuola, a pagare il dottore, a mangiare un po’ di più, e non sempre manioca. Credo in questo progetto perché dopo un anno di sostegno tecnico (non vengono dati loro soldi, solo formazione su come ben gestire la loro associazione), ogni gruppo che ho visto crearsi si è preso in mano e ha continuato a vivere da solo senza di noi. Oggi, alcuni funzionano da anni e nessuno ha mai smesso di esistere.

Ma non è tanto questo il punto. Io non credo che donare sia il vero aiuto. Credo che donare sia generosità, compassione, in un certo senso bontà, ma che non rappresenti, quasi mai, una soluzione, che difficilmente cambi le cose. Non di certo in un paese del genere, dove invece l’aiuto ha reso la gente dipendente e in qualche modo spezzato quel legame fondamentale che è la responsabilità di uno stato verso i suoi cittadini. Una soluzione, per me, è qualcosa che deve poter essere ripetuto, nel tempo, deve poter essere sostenibile, deve essere possibile appropriarsene.

Io non sono una missionaria, né un benefattore. Cerco di lavorare, con tanti limiti, potenzialità, contraddizioni e competenza (cosa molto diversa dalla pietà; non migliore, né peggiore, ma molto diversa), sull’empowerment, l’autonomizzazione, lo sviluppo. Cerco, con tante altre persone, compresi i nostri beneficiari, di trovare soluzioni che possano durare. E questo, talvolta, significa dover allontanare lo sguardo dalla durezza del presente per costruire un domani migliore – e che non dipenda da me.