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Attentato Boston, i terroristi ragazzini vittime dell’ipocrisia mondiale

“Non abitavano in Cecenia ma in America e sono stati educati lì”, ha ribadito con arroganza Kadyrov, il primo ministro ceceno facente funzione di presidente, meglio noto come lo spietato burattino di Putin nella repressione della guerriglia che lotta per ottenere una vera indipendenza da Mosca, non appena si è saputo che i terroristi fai da te di Boston, i fratelli Tsarnaev, hanno origini caucasiche.

Un’excusatio non petita che suona come un tentativo di scrollarsi di dosso le conseguenze delle violenze indicibili perpetrate dalle milizie armate di suo padre e quindi sue assieme ai soldati russi, mandati da Yeltsin e in seguito Putin, contro buona parte della popolazione, compresi donne, vecchi e bambini,come documentò coraggiosamente, a prezzo della propria vita, la giornalista russa Anna Politkovskaja. Se la guerriglia secessionista, ingrossata con il passare degli anni da combattenti islamici integralisti ( la maggior parte dei civili ceceni ha sempre professato un islam moderato) non accettata il finto status di repubblica autonoma federata alla Russia, non è solo per colpa dell’ex direttore del Kgb, grande amico di Berlusconi, ma di tutta la comunità mondiale che ha sempre chiuso gli occhi di fronte a una tragedia infinita. Nonostante la giovane età, i fratelli Tsarnaev erano arrivati negli Stati Uniti con una lunghissima e drammatica storia familiare alle spalle.

Il termine “familiare” però va letto in senso ampio, oltre la parentela stretta, perché nella regione caucasica famiglia significa clan. La grande diaspora delle popolazioni caucasiche, era iniziata negli anni quaranta del secolo scorso con la deportazioni imposte da Stalin. Ceceni e ingusci furono spediti in Siberia e in Kazakhstan, l’ex repubblica sovietica (oggi uno Stato di fatto dittatoriale dove il presidente Nazarbayev e il suoi parenti godono dei proventi del petrolio e lasciano nella penuria il resto della popolazione, costituita peraltro di soli 17 milioni di abitanti) dove molti anni dopo transitarono anche i giovani Tsarnaev. Questi due profughi convertiti al terrorismo avevano sperimentato fin dall’inizio della loro esistenza le conseguenze malsane dell’inosservanza delle convenzioni internazionali da parte dei russi e dell’ipocrisia della comunità internazionale. E con i genitori e i fratelli avevano peregrinato alla ricerca di un luogo dove venisse loro riconosciuto il diritto all’asilo.

Anni fa erano finiti in Daghestan, dove ora vive il padre, passando per il Kirghizistan. Dzhokhar, il sopravvissuto alla grande caccia bostoniana, era nato proprio in questa piccola ex repubblica sovietica. Tamerlan, ora in una cella, frigorifera, aveva scritto su Facebook, commentando una sua foto da boxeur, lo sport che praticava: “Se la Cecenia non diventerà indipendente, vorrei gareggiare per gli Stati Uniti e non per la Russia”.

Non odiavano l’America ma non la capivano, come non capivano probabilmente il mondo ipocrita e codardo che avevano conosciuto. Per questo si erano avvicinati alla religione islamica, la fede che conoscevano per tradizione, perché, come ogni culto monoteista parla di un mondo altro, non su questa terra. Ma, ingenui, non avevano capito che l’imam radicale propugnatore della jihad, che era diventato il riferimento di Tamerlan, è, come molti altri predicatori integralisti, un approfittatore. Un altro ipocrita che usa il pretesto della religione per strumentalizzare chi è giovane, disorientato e traumatizzato. Non si può giustificare la morte e il dolore che i due fratelli hanno seminato nel paese dove vivevano e avevano potuto studiare ma non ci si può nemmeno sorprendere, vivendo in un mondo che prospera sulla cultura della violenza e si arricchisce con la vendita di armi, coprendosi con la foglia di fico delle convenzioni pro diritti umani e delle risoluzioni dell’Onu, puntualmente disattese tra l’ipocrisia generale. Lo scrivo mentre sono in Israele, uno Stato che ne ha violate più d’una a proposito della legittima richiesta dei palestinesi di un proprio Stato.

Il Fatto Quotidiano, 20 Aprile 2013