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Pd: se non riuscirà nella scalata al partito, Matteo Renzi ha già pronto il “piano B”

Il sindaco nega: "Ci sono già troppi partiti". Ma in realtà si sta organizzando nel caso in cui non riuscisse a conquistare la leadership: non ha un nome né un simbolo, ma ci sono finanziatori, macchina organizzativa e programma ereditati dalle primarie. L'obiettivo sarebbe partire con 100mila iscritti e una struttura di vertice snella. Ufficialmente, però, la parola "scissione" è bandita

Nega: “Ci sono già troppi partiti, sarebbe stupido farsene un altro”. Ma poi tira la stoccata: “O Bersani riuscirà a spaccare i 5 Stelle oppure farà un accordo con il Pdl. Si stanno parlando: Migliavacca ha parlato più volte con Verdini”. Vero. Anche tre giorni fa, il coordinatore organizzativo del Pd è stato visto uscire dalla villa fiorentina del ras pidiellino toscano. E a Matteo Renzi tutto questo non piace. La parola “scissione” gli resta ancora indigesta, getta acqua sul fuoco quando viene tirato per la giacca nella sua Firenze e gli dicono “dài, sindaco, mollali che sennò perdi i’ treno…”, però anche a lui è chiaro che non potrà attendere ancora molto a prendere una decisione sul suo futuro, pena un’uscita di scena senza aver mai giocato il ruolo di vero protagonista. Molto si potrà capire giovedì, dopo il faccia a faccia Bersani-Berlusconi che potrebbe definire un assetto contrario agli auspici del sindaco.

La realtà è che Renzi si sta davvero organizzando. E che una sua lista, un soggetto politico agile, pronto a cogliere l’onda di rinnovamento del momento, c’è. Non ha un nome e neppure ancora un simbolo, mentre tutto il resto esiste: ci sono i finanziatori, c’è la macchina organizzativa, c’è il programma. D’altra parte, è tutto fieno che Renzi aveva già messo in cascina all’epoca delle primarie perse tanto male da farlo riflettere sull’idea di restare davvero a fare il sindaco di Firenze a vita. O quasi. Poi, però, la ruota ha girato: Bersani ha di fatto perso elezioni che credeva di avere in tasca. Non c’è un governo né ci sarà (forse) dopo la nomina del prossimo Capo dello Stato. A meno che Bersani, pur di conquistare Palazzo Chigi, faccia un accordo con il Pdl. Questo, per Renzi, sarebbe il grimaldello che lo farebbe uscire allo scoperto. “Tanto si va comunque a votare – sostiene uno a lui molto vicino – ma adesso i tempi sono fondamentali; un giorno in più o in meno e si può rovinare tutto…”.

La parola “scissione” dunque, non si pronuncia, ma aleggia nell’aria. La riflessione, dicono, è semplice perché nel Pd ci sono solo due scenari possibili. Il primo che la scissione avvenga a sinistra, come beffardamente ha buttato lì anche D’Alema (“se Renzi conquista il partito io me ne vado con Vendola”). Oppure che avvenga – molto più probabilmente – a destra. Che, cioè, il partito si ricompatti intorno a Bersani, renda complicate le primarie e induca (o costringa) in questo modo Renzi a diventare leader di un partito. Il suo. Renzi ha fatto capire in ogni modo di voler azzerare la vecchia nomenclatura del Partito democratico. E tra dossier sui costi del Pd e proposte di legge per abolire il finanziamento pubblico si può dire che il sindaco sia visto davvero da una parte della classe dirigente democratica quantomeno come uno scardinatore del sistema, più che un semplice rottamatore.

C’è, poi, anche dell’altro. Ossia il fatto che a Renzi non sfugge che sia Fabrizio Barca – e, quindi, non lui – il candidato della nomenklatura piddina alla successione di Bersani alla segreteria. Al punto che si era sparsa la voce che nella testa del sindaco ci fosse anche la possibilità di proporre al ministro della Coesione territoriale una sorta di patto: Barca segretario, Renzi premier. Dire che la questione ha fatto venire l’orticaria a più d’uno al Nazareno è dire poco. Ecco perchè il piano “b” resta comunque in piedi. Appunto, c’è.

Non tutti se ne ricordano, ma due scissioni sono già avvenute negli anni scorsi in terra democratica, con esiti disastrosi per gli scissionisti. Nel 2008, erano stati gli irriducibili dei Ds (autodefiniti Sd, ovvero Sinistra democratica) a tentare l’avventura con la lista Arcobaleno, nel 2009 era stato Rutelli a fare l’irriducibile, con la mai decollata Alleanza per l’Italia. Molti indizi, a partire dai sondaggi, fanno ritenere che oggi le cose andrebbero diversamente: il Pd è così diviso che c’è spazio sia per una robusta scissione a sinistra, sia per una robusta scissione a destra. Anche se dovesse avvenire, come si augurano in parecchi nel capoluogo toscano, “senza traumi stile Lega, ma in modo naturale quanto inevitabile”.

Ecco dunque cosa bolle nella pentola dell’ “officina” renziana. Anzi. Sarebbe meglio dire nelle “officine democratiche” che hanno già sostenuto il sindaco durante le sue primarie e di cui restano soci personaggi e parlamentari come Ivan Scalfarotto, Pietro Ichino e Andrea Marcucci. Al momento la discussione è in corso, ma si parla di un possibile programma elettorale molto snello, fatto di dieci punti al massimo. Anche la squadra “c’è già, se servirà”, così come il pool di finanziatori non aspetta altro che mettere la mano al portafoglio. In prima fila Diego Della Valle con Montezemolo (ma soprattutto il primo, con cui Renzi ha un rapporto molto stretto), ma anche il patron di Eataly, Oscar Farinetti, renziano della prima ora e una serie di imprenditori toscani del pellame (sfiorati dalla crisi ma meno di altri). A Firenze la consegna del silenzio è di rigore. Anche perché, al di là delle questioni legate alla possibilità che Renzi sia anche un “grande elettore” del nuovo presidente della Repubblica, sarà subito dopo, quando si parlerà del governo e Bersani potrebbe tornare alla carica per la conquista di Palazzo Chigi che il sindaco di Firenze si troverà davanti al bivio. Certo, la speranza è quella di non trovarsi nell’obbligo di uno strappo, di non essere davvero costretto dagli eventi a chiudere la sua vicenda personale e politica dentro il Partito Democratico. Variabili, tuttavia, sul tappeto, che Renzi, con il suo think tank, stanno già valutando da settimane, per essere pronti a cogliere l’attimo “oppure a lasciare ancora il camper dentro il garage; dipende”.

Segnali, per il momento. E se poi si dovesse partire, di sicuro Renzi non farebbe “un partitino di quarta classe”, ma punterebbe in alto, con una base di partenza di almeno 100 mila iscritti e una struttura di vertice snella, “dove faremo grande uso del web – dicono sempre nel suo entourage – ma senza cadere negli eccessi e nelle ridicolaggini di Grillo”, con l’obiettivo di catturare consensi “ovunque; se rubiamo a Berlusconi per noi è solo una vittoria”. I sondaggi, al momento, sono altamente favorevoli. Li confeziona la Ghisleri, la stessa “signora dei numeri” di Berlusconi: “Solo a Firenze e in Toscana saremmo fin da subito il primo partito” ma anche fuori dal “Granducato” il consenso verso il giovane sindaco gigliato è dato in ascesa. All’appello manca solo la scelta di Renzi. Che per il momento resta nel Pd sperando che il “piano A” (lui candidato premier alle prossime elezioni) si concretizzi. Ma il “piano B” è sempre vivo e lotta insieme a lui.