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Attaccare e resistere: la strategia anti-Israele che favorisce Hamas su Fatah

Chi è sceso in piazza in questi giorni per protestare contro i raid di Gerusalemme nella Striscia di Gaza si identifica sempre più con il movimento verde. E il 20 ottobre i palestinesi hanno rinnovato i consigli locali e Fatah ha sì vinto nella metà delle 93 città in cui si è votato, ma ha perso in cinque delle undici città più importanti

Il settimo giorno potrebbe essere quello della tregua. Dopo ore di trattative, Israele e Hamas sarebbero ad un passo dal cessate il fuoco. Gli annunci si sono susseguiti per tutto il pomeriggio. Poco dopo le 17 fonti egiziane annunciavano che la tregua sarebbe stata ufficializzata per le 20 ore italiane e sarebbe entrata in vigore alla mezzanotte locale (le 23 in Italia). Poco dopo Israele smorzava gli entusiasmi: la tregua “non è ancora finalizzata”, “la palla è ancora in gioco”, spiegava alla Cnn un portavoce del governo israeliano, secondo cui prima di sottoscrivere qualsiasi accordo Gerusalemme vuole 24 ore senza il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza. Una manciata di minuti più tardi la nuova conferma: la tv israeliana Canale 2 annunciava il cessate il fuoco per le 21 ore locali. Mentre il bilancio delle vittime a 7 giorni dall’inizio dell’operazione “Pilastro di Difesa” è salito oltre quota 130, ora i negoziati sono ancora in corso, ma le due parti sono più vicine. Grazie alla trattativa portata avanti, da parte palestinese, da Khaled Meshaal, capo di Hamas, che in questi giorni si è ritagliata giocoforza un inedito ruolo di interlocutore dell’Occidente.

Il primo a parlare di tregua era stato il presidente egiziano Mohamed Morsi: “L’assurda aggressione israeliana contro Gaza terminerà oggi”, spiegava il leader del Fratelli musulmani nel primo pomeriggio. La macchina della diplomazia non si è mai fermata: tre i colloqui telefonici tra Morsi e Barack Obama, con il presidente degli Stati Uniti che ha seguito da lontano l’intera trattativa, mentre Hillary Clinton è attesa a Tel Aviv in serata per incontrare il premier israeliano Netanyahu, prima di recarsi nei Territori Palestinesi e in Egitto. I paesi musulmani hanno fatto nuovamente blocco. Il Ministero degli Esteri iraniano ha ribadito che Israele è il solo responsabile del conflitto in corso e dovrebbe essere processato per ‘crimini di guerra’. E contro Tel Aviv si è schierata nuovamente anche la Turchia: il premier Tayyip Erdogan ha ribadito che Gerusalemme ha messo in atto una ‘pulizia etnica’ nei confronti dei palestinesi.

La tregua sembra vicina, ma quella di oggi è stata una nuova giornata di violenza. Un’ora dopo l’annuncio di Morsi, l’esercito israeliano ordinava una nuova evacuazione della zona sud di Gaza City: l’Israel Air Force riprendeva i bombardamenti, uccidendo nove palestinesi, con i raid che sono continuati anche in serata. Anche Hamas tornava a colpire. Nelle stesse ore in cui il governo israeliano decideva per la sospensione dell’invasione di terra, un razzo da Gaza è caduto nei pressi di Gerusalemme, senza fare vittime. Mentre un proiettile di mortaio ha raggiunto un kibbutz vicino alla Striscia, uccidendo un militare e portando a 5 il numero delle vittime israeliane. “Abbiamo impartito al nemico sionista una lezione che non dimenticherà mai”, hanno fatto sapere fonti di Hamas, aggiungendo che il cessate il fuoco sarebbe “una vittoria di Hamas e delle Brigate Qassam“, il suo braccio militare.

Sul fronte interno, è di certo una vittoria: in Palestina tra Hamas e Fatah il baricentro si sta spostando, le proteste scoppiate nelle ultime ore in tutto il West Bank lo dimostrano. I palestinesi che nei Territori Occupati sono scesi in piazza in questi giorni per protestare contro i raid di Israele su Gaza si identificano sempre di più con Hamas. A Ramallah gli altoparlanti montati fuori dai negozi diffondevano tutti la stessa canzone: “Non lasciare che il Sionista dorma sonni tranquilli. Non vogliamo accordi né soluzioni. Palestinesi, siatene orgogliosi”. In centinaia, sventolando le bandiere verdi del movimento, per l’ennesima volta hanno sfidato l’esercito israeliano in varie città, da Hebron, dove l’Idf ha aperto il fuoco e ha ucciso due persone, a Gerusalemme Est, dove gli arresti sono stati decine. “Non siamo più soltanto rifugiati senza speranza – ha spiegato all’Economist Mahmoud, negoziante di Saladin Street, felice per i razzi sparati da Gaza verso Tel Aviv – dopo anni di inerzia, ora ci stiamo muovendo come se avessimo un esercito tutto nostro”.

Uno scollamento fotografato anche dai risultati delle elezioni municipali di fine ottobre. A sei anni dall’ultima chiamata alle urne, il 20 ottobre i palestinesi hanno rinnovato i consigli locali e Fatah ha sì vinto nella metà delle 93 città in cui si è votato, ma ha perso in cinque delle undici città più importanti, tra cui Jenin, Nablus e persino Ramallah, capitale e sede operativa dell’Anp. Inoltre in altri 14 centri la vittoria è arrivata solo a suon di alleanze. Le ultime trattative, poi, sembrano aver tracciato uno spartiacque. Anche se il 29 novembre al Palazzo di Vetro per chiedere all’Onu lo status di osservatore speciale per l’intera Palestina, Gaza compresa, andrà Abu Mazen, presidente dell’Anp, in questi giorni al tavolo della pace è seduto Khaled Meshaal, capo di Hamas.