Economia & Lobby

Miseria dello sviluppo o sviluppo della miseria?

La notizia sventagliata ai quattro venti del ‘ritorno alla crescita’ in Inghilterra dopo anni bui di recessione e’ stata salutata con giubilo da stampa e mondo politico. Seguire il dibattito da vicino mi ha dimostrato, ove ce ne fosse ancora bisogno, di quanto patetica e priva di senso sia la discussione politica nei paesi occidentali riguardo i cambiamenti dell’economia globale. Rallegrarsi di fronte alle misere prospettive di ‘crescita’ di un paese occidentale in declino (come l’Inghilterra appunto) non ha senso per due ragioni:

(1) il modello di sviluppo costruito e perpetrato dal dopoguerra ad oggi è morto. Morto perché presuppone l’uso illimitato di risorse sempre più scarse. Morto perché fiacca e logora ogni giorno la coesione sociale. Morto perché ha rotto definitivamente il legame intrinseco tra lavoro e produzione di benessere. Morto perché non distribuisce adeguatamente la ricchezza prodotta a lavoratori sempre più ‘flessibili’ e ‘precari’. Morto perché un ipotetico incremento del livello di consumo di beni materiali non amplierebbe i nostri orizzonti intellettuali e la nostra partecipazione sociale, politica e democratica.

(2) Il prodotto interno lordo non misura più in modo efficace il tasso di crescita e sviluppo dei paesi occidentali. Rappresentando il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all’interno di un paese in un certo intervallo di tempo, conteggia ogni attività economica, anche quelle che producono un effetto negativo. Se domani decidessimo di disboscare tutta la Sila, o di bombardare un intero quartiere di Roma per poi ricostruirlo, contribuiremmo attivamente alla crescita del prodotto interno lordo del nostro paese. Il prodotto interno lordo è una misura sempre più lontana dalla realtà perché non tiene conto della distribuzione della ricchezza (crescita o riduzione delle disuguaglianze), delle transazioni che non rientrano nello schema di mercato (come per esempio quello che succede all’interno della famiglia o il lavoro volontario), dell’economia sommersa, della qualità dei singoli beni prodotti (produrre e vendere cinque computers scadenti ha lo stesso impatto sul PIL di uno molto potente e durevole che abbia un prezzo cinque volte superiore), delle esternalita’ negative (come per esempio l’inquinamento o gli effetti perversi di alcuni processi industriali).

Allora forse invece di aspettare ‘il recupero’ di punti di PIL, come invocavano in una nota trasmissione televisiva qualche anno fa Bersani e Tremonti (successivamente convertitosi all’eterodossia anticapitalista nei suoi ultimi scritti), occorre guardare in faccia la realtà.

L’intero modello economico si regge su un doppio inganno: l’aver creduto nell’eternità di alcuni fenomeni sociali (come la crescita del benessere materiale) e l’idea che esistono risorse infinite da sfruttare. Tutto e’ stato concepito (come ha ben sottolineato Piero Bevilacqua in Miseria dello Sviluppo e qualche anno addietro il buon Serge Latouche) al di fuori di ogni dinamica temporale e spaziale. E’ un paradosso che nell’epoca in cui si teorizza la rapida obsolescenza di ogni cosa si continui a credere che c’è possibilità infinita di crescita.

La storia ci ha insegnato, che le più importanti forme di civilizzazione della nostra storia sono state abbattute e superate nel momento in cui persero la bussola, lo Zeitgeist. Prima che sia troppo tardi, forse sarebbe meglio smetterla di esultare per un balzello del PIL e ricominciare a pensare in modo olistico allo sviluppo del nostro modello socio-economico. Tutto quello che ci circonda, piaccia o no a liberisti ed economisti senza scrupoli, e’ il frutto di un gigantesco sforzo collettivo. E’ davvero arrivato il momento di lasciare da parte l’io utilitarista e riabbracciare il noi; un noi collettivo, solidale e conscio dei limiti da porre allo sfruttamento sociale e ambientale delle risorse che ci circondano.

p.s. Per chi avesse un oretta da spendere consiglio questo documentario, si chiama The Coconut Revolution ed e’ la narrazione di come un intero popolo si sia ribellato allo sfruttamento economico senza scrupoli, vincendo la propria battaglia usando la natura come alleato