Cronaca

Via del Baiardo, “Hai mai visto la guerra?”

A via del Baiardo c’era un campo nomadi, ci passavo correndo lungo la ciclabile che costeggia il Tevere. Vi scorreva una vita miserabile, disgraziata, poverissima, spesso incontravo i bambini che giocavano sulla ciclabile, mi salutavano, qualche volta pronunciavano a voce alta delle oscenità, in una maniera che, più che i passanti, sembrava servire a provocare se stessi. Dopo lo sgombero del 5 luglio – le “operazioni di chiusura” come si dice ufficialmente usando la lingua della finzione– quello che rimane è un orrore.

“Rimosse baracche abusive, avviate a smaltimento oltre 60 tonnellate di rifiuti e ripristinata la sicurezza nell’area” hanno riportato gli organi di informazione, probabilmente imbeccati dalla dolcezza chimica di qualche comunicato stampa. Il sindaco di Roma Alemanno, oltre a tappezzare i muri di Roma nord con affissioni abusive dai toni trionfalistici, ha inviato una lettera ai cittadini del ventesimo municipio ostentando il merito dell’operazione, una lettera in cui si leggevano passi come “I minori che negli anni hanno frequentato le scuole del territorio, da settembre 2012 saranno iscritti presso gli istituti del X municipio” (la comunità di via del Baiardo è stata confinata dall’altra parte della città, nel centro della Barbuta, una striscia di terra al confine, appunto, tra il decimo municipio e il comune di Ciampino).

Ieri sera, correndo sulla ciclabile all’ora del tramonto, sono passato da quelle parti, proprio sopra l’area dove sorgeva il campo nomadi. Mi si è presentata agli occhi l’immagine di una piccola cittadella rasa al suolo, il terreno invaso di miserande macerie, come dopo il passaggio di un cataclisma spaventoso. Sul pilone del cavalcavia che incombe sulla spianata c’era una scritta rabbiosa tracciata a spray, una frase animata da una rabbia cieca e violenta: “Lo sgombro del campo nomadi e colpa di rumeni e dela polizia di merda”. Accanto a me c’era un uomo in bicicletta che fissava impietrito quello spettacolo turpe. Mi si è rivolto quasi senza guardarmi, mentre scattavo qualche foto. Aveva un accento slavo. “Tu hai mai visto la guerra?” mi ha chiesto. Gli ho risposto di no. Si è preso una lunga pausa, ha sospirato. “Qui sembra una piccola Sarajevo”.