Tecnologia

Sorpresa: la pirateria non arriva (solo) da Internet

Da più di 10 anni, più o meno dalla nascita di Napster, ci sorbiamo i piagnistei di produttori discografici e cinematografici riguardo il terribile fenomeno della pirateria online. Gli uffici stampa delle associazioni di categoria ci hanno inondati di dati catastrofici, che condannano senza attenuanti i fan del p2p. Sono loro, i fantomatici ragazzini dal download facile, la causa prima dei cali di vendite e profitti di artisti e major. I dati riportati periodicamente erano dettagliatissimi: riportavano cifre, stime e analisi approfondite sul fenomeno. Le conclusioni erano incontestabili. A sentire i talebani del copyright, la Rete è letteralmente infestata di server pirata, computer dedicati allo scambio dei file e network illegali che hanno sgretolato, in una manciata di anni, il business della musica e dei film. La crociata della Riaa, l’associazione dei discografici americani, e soci ha trovato terreno fertile nelle aule di giustizia e nei parlamenti di tutto il mondo, indicando uno e un solo colpevole: Internet.

Curiosamente tutte queste ricerche trascuravano di affrontare un dato. Un dato che nessuno, per la verità, si è mai preoccupato di considerare seriamente.  Almeno fino a quando una presentazione PowerPoint interna alla stessa Riaa non è “scivolata” sul Web ed è finita tra le mani di TorrentFreak, un blog dedicato al tema del file sharing. Il dato che nessuno ha mai considerato riguarda la quantità di copie pirata effettivamente generate dal file sharing. Ed ecco la sorpresa: secondo i dati in possesso della stessa Riaa, questo valore è di appena il 30%.

I dati si riferiscono agli Stati Uniti e indicano che su 100 mp3 in circolazione, 35 sono stati acquistati legalmente. Delle rimanenti 65 “copie pirata”, 27 sono state copiate direttamente dal CD, 19 scambiando fisicamente i file da un disco all’altro e soltanto 15 provengono dal peer to peer. Ancora meno sono quelli scaricati da siti come MegaUpload: solamente 4. Questa informazione, assente in tutti gli studi pubblicati e diffusi in più di dieci anni, nessuno si è mai sognato di chiederla. E come dargli torto? Ammettiamolo: eravamo tutti sinceramente convinti che Internet fosse il vero colpevole.

Nessuno quindi si stupiva più di tanto che per i pirati telematici venissero chieste pene esemplari. L’accanimento nei confronti di chi utilizza il p2p per condividere musica era giustificato con l’idea che ogni singolo “comportamento criminale” innescasse un circolo vizioso in cui i brani copiati e diffusi online finivano per raggiungere milioni di persone provocando danni spaventosi al business dell’intrattenimento. Come nel caso di Jammie Thomas-Rasse, accusata di aver scaricato 24 canzoni e condannata a pagare per questo suo crimine 1,5 milioni di dollari (poi ridotti a 54.000) come risarcimento ai poveri discografici defraudati dei loro guadagni.

Ora invece scopriamo che i maggiori responsabili di questa presunta catastrofe sono quegli scambi tra amici (bello questo cd, me lo presti?) a cui abbiamo già assistito per decenni. Qualcuno ricorda i primi registratori con doppia cassetta che permettevano la duplicazione? Lo scambio “fisico” dei file su una chiavetta usb non è molto diverso, al massimo un po’ più rapido.

E adesso? La prima conseguenza è un crollo verticale della credibilità delle associazioni di categoria. A pensar male, infatti, si potrebbe ipotizzare che di questo “dettaglio” fossero a conoscenza da sempre e abbiano preferito ometterlo (nasconderlo) nelle comunicazioni ufficiali. D’altra parte è quello che è accaduto anche nel comunicato stampa relativo allo studio di cui sopra, in cui si accenna a dati che nulla dicono sulla reale incidenza di Internet sul fenomeno della pirateria. La seconda conseguenza è la perdita di credibilità di chi ancora sostiene periodicamente le impresentabili leggi-bavaglio (Sopa, Pipa, Acta, Cispa, etc.) per la tutela del diritto d’autore. Ora che sappiamo il reale impatto di Internet, quale governo avrà ancora il coraggio di mettere la faccia in operazioni che minaccino di sacrificare la libertà d’informazione online sull’altare dei profitti delle major?