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“Promoted post”, il successo e la visibilità su Facebook si pagano

Il social network ha introdotto annunci a pagamento per offrire maggiore visibilità ai contenuti delle fanpage. Alle proteste di chi naviga in rete per le inserzioni "spazzatura" si aggiungono problemi legali per le “notizie sponsorizzate”, un altro sistema di promozione

Dopo la travagliata quotazione in borsa, il social network di Mark Zuckerberg introduce anche in Italia nuove modalità per pubblicare avvisi pubblicitari. La novità è rappresentata dalla “promozione dei post” (“promoted post”), un sistema a pagamento che permette ai titolari delle fan page di dare una maggiore visibilità ai loro post. Secondo i dati pubblicati da Facebook a inizio 2012, solo il 16% dei fan visualizzano i post pubblicati dalle aziende a cui hanno concesso il tanto agognato “mi piace”. Ora il social network offre la possibilità di aumentarne la visibilità (a pagamento) per garantire alle aziende di raggiungere un maggior numero di iscritti. In Italia la promozione dei post è stata attivata, ma la sua introduzione è coincisa con un drastico calo nella visualizzazione dei post non promossi.

Gianluca Cozzolino, amministratore delegato di CiaoPeople, conferma tutto: “Abbiamo usato il servizio nei giorni scorsi, ma al momento non è più disponibile. Da circa una settimana, però, abbiamo notato un abbassamento tra il 40 e il 50 per cento nella visualizzazione dei post gratuiti”. Il dubbio, insomma è che Facebook abbia ridotto la visibilità dei post pubblicati nelle fan page per “invogliare” le aziende a investire nel nuovo servizio. Di certo, c’è che il sistema funziona: “La stessa notizia, inviata il giorno prima senza utilizzare la promozione dei post, è stata visualizzata da 6mila persone. Utilizzando la modalità a pagamento abbiamo registrato 21mila visualizzazioni”. Contattato dal fattoquotidiano.it, Facebook conferma l’introduzione dei promoted post da inizio giugno in tutto il mondo. Nessun commento, invece, riguardo un eventuale modifica dei criteri di visualizzazione dei post “gratuiti”. Proprio la questione della pubblicità, secondo molti analisti finanziari, era stata tra le cause del flop a Wall Street nello scorso maggio e Morgan Stanley, la banca a cui Facebook si è affidata per il suo sbarco in borsa, è stata accusata di aver “nascosto” i reali dati relativi alle previsioni di sviluppo del settore pubblicitario del social network.

Nessuna sorpresa, quindi, che dalle parti di Menlo Park abbiano deciso di puntare decisamente su un incremento della pubblicità. Un’operazione, però, che ha i suoi rischi. Già l’introduzione di pubblicità esterna, visualizzata nella parte sinistra della pagina e che riporta la dicitura “ads not by facebook” (“pubblicità non proveniente da Facebook”, ndr) aveva provocato la reazione sdegnata di molti utenti. Gli annunci in questa sezione, infatti, appartengono alla categoria della “pubblicità spazzatura” che di solito compare nei bassifondi del Web: immagini con animazioni flash che simulano videogiochi e che, una volta cliccate, portano all’apertura di altre pagine e pop-up difficili da chiudere. Alle proteste degli utenti si sono aggiunti, nei mesi scorsi, anche i guai legali. Il mese scorso (ma la notizia è stata resa nota solo nel weekend) Facebook ha accettato di versare 10 milioni di dollari in beneficenza per mettere fine alla controversia legale che aveva come oggetto le “notizie sponsorizzate”, un altro sistema di promozione che permette alle aziende di utilizzare il profilo di un utente per dare maggiore incisività alle sue pubblicità. Il caso di Angel Fraley, una delle querelanti nella causa intentata al social network, delinea bene il meccanismo. Una volta aggiunto un “mi piace” alla pagina di Rosetta Stone per scaricare un software gratuito, il nome del suo profilo (Angel Frolicker) è comparso sulle pagine di tutti i suoi contatti con accanto la scritta “A Angel Frolicker piace Rosetta Stone”.

Un sistema utilizzato ampiamente all’interno di Facebook, ma che contrasta con la legge californiana che vieta di usare nome, voce, firma, fotografia o elementi simili di un’altra persona per scopi pubblicitari. Nella causa, Facebook si è difesa sostenendo che l’accettazione dei termini di utilizzo del social network comprendono questo tipo di servizio, ma l’eccezione è stata contestata dalla controparte: al momento dell’iscrizione dei querelanti sul social media, infatti, le notizie sponsorizzate non erano ancora state introdotte e agli utenti non è stata chiesta nessuna nuova autorizzazione. Il sistema di controllo, inoltre, non permette in alcun modo di limitare l’utilizzo della propria immagine nelle “sponsored stories”. Il patteggiamento permette all’azienda di Zuckerberg di evitare un possibile disastro: se gli oltre 153 milioni di utenti Facebook residenti negli Stati Uniti avessero avviato una class action nei suoi confronti, il risarcimento avrebbe potuto raggiungere dimensioni stellari.