Cronaca

Trattativa Stato-mafia, indagini chiuse: 12 avvisi da Dell’Utri a Mannino

Il braccio destro di Berlusconi nuovamente accusato di essere l'"uomo cerniera" tra la politica e Cosa nostra. Oltre ai boss, indagati anche gli ufficiali del Ros Subranni, Mori e De Donno. Il pm Ingroia parla di accordi presi "sul sangue" di servitori della Repubblica

Dopo l’omicidio Lima diventa interlocutore dei vertici di Cosa nostra come mediatore dei benefici richiesti dalla mafia, agevola la prosecuzione della trattativa dopo l’arresto di Vito Ciancimino e Totò Riina, e alla fine favorisce la ricezione della minaccia mafiosa da parte di Silvio Berlusconi, “dopo il suo insediamento come capo del Governo”: Marcello Dell’Utri è “l’uomo cerniera” tra Stato e mafia, l’anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova Repubblica sorta nel ’92 a suon di bombe. Insieme a lui boss e ministri, gregari mafiosi e ufficiali dei carabinieri e, se fossero vivi, anche il capo della polizia Vincenzo Parisi e il vice capo del Dap Francesco Di Maggio: ecco i protagonisti del “ricatto allo Stato”, raccontato da un’indagine durata due anni e che è giunta alla sua conclusione con l’invio ieri pomeriggio delle notifiche dell’avviso di conclusione delle indagini ai 12 indagati dell’inchiesta sulla trattativa tra “mafia e Stato”, condotta, secondo la procura di Palermo, da uomini dello Stato e uomini di Cosa nostra.

Sono Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli esponenti politici Calogero ManninoMarcello Dell’Utri (la cui condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa è stata recentemente annullata dalla Cassazione). Devono rispondere dell’art. 338 del codice penale: violenza o minaccia a corpi politici dello Stato, aggravata dall’art. 7 per avere avvantaggiato l’associazione mafiosa armata Cosa nostra e “consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Insieme a loro presto riceveranno una richiesta di rinvio a giudizio anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino per concorso esterno alla mafia e per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro.

In un’indagine parallela, sono indagati per false dichiarazioni al pm, l’ex ministro Giovanni Conso, e altri ancora sconosciuti: per loro l’accusa ipotizzata (articolo 371 bis) prevede la sospensione del procedimento fino alla definizione, con sentenza di primo grado o con archiviazione, dell’inchiesta principale. Si chiude oggi una stagione tra le più impegnative per la Procura di Palermo, per la sua capacità di scandagliare la cattiva coscienza della classe politica italiana. I pm chiedono in sostanza di processare i protagonisti di una stagione segnata, secondo l’accusa, dalla svendita dei valori dello Stato da parte di alcuni uomini delle istituzioni in cambio della salvezza della vita di alcuni, identificati, uomini politici.

Il racconto dell’indagine è la narrazione oscura, rimasta sempre in ombra , delle radici della Seconda Repubblica, fondata, come dice il pm Antonio Ingroia, sul sangue dei servitori dello Stato. Ad avviare la trattativa sarebbe stato Calogero Mannino, esponente della sinistra dc, nel mirino delle cosche, accusato di avere contattato “a cominciare dai primi mesi del ’92” investigatori, in particolare dei carabinieri, “per far cessare la strategia stragista”. Scendono in campo, a questo punto, Subranni, Mori e De Donno, che su incarico “di esponenti politici e di governo” aprono un “canale di comunicazione con i capi” di Cosa nostra per far cesare la strategia stragista. Ed in seguito favoriscono lo sviluppo della trattativa rinunciando, insieme e reciprocamente, con i boss, “all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato”. Come? Assicurando, per esempio, “il protrarsi della latitanza di Provenzano, principale referente della trattativa”. Che si continua a snodare sul terreno politico: nel frattempo Mannino, infatti, avrebbe esercitato “indebite pressioni per condizionare l’applicazione del 41 bis ai detenuti mafiosi”.

Ma a parlare con i mafiosi, in quel periodo, sono in tanti. Prima di lui, infatti, sulla scena era apparso Marcello Dell’Utri, che dopo l’omicidio di Salvo Lima si pone come interlocutore di Totò Riina “per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici”, per poi continuare a dialogare con Provenzano, dopo l’arresto di Vito Ciancimino e Riina. La cattura dei capi dei capi, e l’arrivo dei governi tecnici del ’93 inducono i boss a puntare sul “cavallo” considerato vincente: e per il tramite dello stalliere Vittorio Mangano e di Marcello Dell’Utri, Bagarella e Brusca portano ad Arcore le richieste di Cosa nostra. Tre, in particolare: una legislazione penale e processuale più morbida, un condizionamento dei processi in corso e un trattamento penitenziario più leggero. Condizioni “ineludibili” per porre fine allo stragismo. A capo del governo si è appena insediato Berlusconi: e Dell’Utri deve oggi rispondere di avere favorito la ricezione della minaccia mafiosa da parte di Silvio Berlusconi dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi. È il 1994, l’inizio della Seconda Repubblica.

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

Da Il Fatto Quotidiano del 14 giugno 2012