Cronaca

Brindisi, bombe, bugie e videotape. I vecchi schemi non bastano

La strage alla scuola ‘’Morvillo-Falcone’’ di Brindisi è un rebus investigativo che gli inquirenti, a quattro giorni dalla morte di Melissa Bassi, stentano a ricomporre, nonostante l’ottimismo esibito a caldo dal capo della Polizia Antonio Manganelli che ha promesso all’opinione pubblica: ‘’Li prenderemo’’. Forti della videoripresa che casualmente ha registrato le immagini di un uomo in giacca e scarpe da tennis che maneggia un telecomando, e convinti di avere a portata di mano la soluzione del caso, i vertici degli apparati investigativi e giudiziari si sono messi subito al lavoro. E hanno snocciolato le loro ipotesi sulla matrice criminale dell’esplosione. Prima hanno detto: è un attentato di stampo mafioso. Ma i boss della Scu, contattati in carcere, hanno fatto sapere: ‘’Noi non c’entriamo’’. Gli analisti delle strategie criminali hanno sfornato allora l’ipotesi di riserva: è terrorismo. Ma, Alfredo Davanzo (considerato l’ideologo del partito comunista politico-militare) in una pausa del processo milanese alle cosiddette nuove Br, si è affrettato a dissociarsi: “Noi non ammazziamo i bambini”. Gli inquirenti, allora, hanno pensato di giocare la carta a sorpresa, il jolly, e hanno ipotizzato: è l’azione isolata di un pazzo. Si sono catapultati con le forze dell’ordine su un cinquantenne esperto di elettronica, che somigliava vagamente all’uomo del video, e lo hanno torchiato per un giorno e mezzo. Poi – non senza aver litigato un po’ tra loro – lo hanno rilasciato con tante scuse. Tornando a casa, lo stragista per caso si è limitato a dichiarare: ‘’E’ stata una giornata da dimenticare’’.

Le indagini, a questo punto, sono ripartite da capo. Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha rassicurato tutti: ‘’Stiamo vagliando tutte le ipotesi. Il meglio dell’intelligence investigativa è a lavoro per dare un volto e un nome al responsabile dell’attentato di Brindisi”. Ma nessuno ora si sente al sicuro. Chi ha voluto quella strage a scuola? Se l’ipotesi del gesto isolato di un folle non regge, se la mafia pugliese giura che non c’entra, e le nuove Br si dissociano, quale altra manovalanza si potrà tirare in ballo per attribuirle l’azione criminale che segna il ritorno della strategia della tensione nel Paese, proprio nell’epilogo della Seconda Repubblica? Non è inutile, forse, andarsi a rileggere l’articolo ‘’Cos’è questo golpe?’’ (quello dal famoso incipit ‘’Io so’’…), pubblicato nel ‘74 dal Corriere, nel quale Pasolini spiegava con grande chiarezza che la strategia della tensione non è roba da bassa manovalanza, sia essa costituita da sicari fascisti, mafiosi, o finti anarchici. Pasolini descrive due fasi della strategia della tensione negli anni Settanta: la prima anticomunista (Milano, 1969: il caso Pinelli, l’invenzione di Valpreda) con le stragi attribuite agli anarchici, e la seconda antifascista (Brescia e Bologna, 1974) che scarica la responsabilità degli attentati ai fascisti. In entrambe le fasi, denuncia Pasolini, la strategia è pensata in alto. ‘’Io so i nomi – scrive – del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum’’. E gli esecutori? Utili idioti, ‘’che si sono messi a disposizione come killer o sicari’’, che hanno ucciso con la copertura dei servizi, per poi finire sotto processo, cavandosela alla fine -quasi sempre- con un’insufficienza di prove.

Lo stesso copione si ripete negli anni Novanta, quando arriva la terza fase della strategia della tensione: quella mafiosa. Con un’unica variante: al posto dei sicari neo-fascisti, ci sono i picciotti di Totò Riina. La violenza torna ad insanguinare il Paese per spianare la strada al capovolgimento politico-istituzionale: la nascita della Seconda Repubblica. E a livello investigativo? Anche stavolta, un esito a dir poco minimalista: verità ‘’compatibili’’, depistaggi a catena. Fioccano gli ergastoli, ma solo per i manovali di Cosa nostra: sicari, killer, padrini. I mandanti restano impuniti. Come a piazza Fontana, a Brescia, a Ustica. E adesso si ricomincia? Sulle pagine de ‘’L’Opinione’’, Arturo Diaconale si chiede se nelle analisi giudiziarie e investigative possa reggere ancora ‘’lo schema mafioso, dopo che per vent’anni – così come quello anarchico e quello fascista – non è riuscito ad accertare una qualche solida verità sui misteri italiani a partire dal nome degli assassini di Falcone e Borsellino’’. Ed è la domanda delle mille pistole. Oggi che ci si interroga sulla matrice criminale di Brindisi, conviene continuare a guardare alla strategia della tensione con gli schemi del passato? Addossare la colpa alla mafia? O alle nuove Br? Non sarebbe meglio smettere di guardare ai burattini e cercare di rivolgere la nostra attenzione ai burattinai? Forse, oltre a processare i manovali della violenza, arriveremmo a capire finalmente che cosa è successo in Italia quarant’anni fa, e poi vent’anni fa. E cosa continua ad accadere oggi. Sulla pelle dei ragazzini.