Cronaca

Avevo 16 anni. E non ne avrò 17

Oggi è sabato. Stasera esco con le mie amiche e parleremo dell’estate che sta arrivando, della dieta, di quel ragazzo lì che non si decide a farsi avanti e di quel maledetto compito di matematica che non è andato bene. Stasera mi metto i jeans nuovi e pure gli orecchini belli che mi ha prestato P. Oggi è sabato. Corro a scuola. Tanto sta per finire e finalmente dormirò. Oggi e sabato. E io sono morta.

Me la immagino cosi, Melissa. E ho il cuore gonfio di dolore e rabbia mentre in questo aeroporto, chi mi sta intorno non sa da dove arrivino quelle lacrime che, silenziose, scendono nonostante provi a ricacciarle indietro. A volte, non si può far altro che questo, stare in silenzio e non difendersi dal dolore. Non conoscevo Melissa. Ma ho avuto sedici anni. E me lo ricordo. Ci si sente fragili e indistruttibili, ci si sente qui e altrove, tristi e felici insieme. E con tanti sogni da non saper più dove metterli, ora che hanno riempito ogni pagina di quel diario, con un volume raddoppiato da tutte le foto, i disegni, i biglietti dei concerti e quelli degli auguri. Sogni sparsi e luminosi. Perché a sedici anni si è luce e calore. Sogni accartocciati. Come quel foglio del compito. Come la carta del panino che ti ha preparato tua madre prima di andare al lavoro. Come colpiti da una bomba.

La morte non dovrebbe arrivare mai quando hai sedici anni. La morte non dovrebbe avere accesso in nessuna scuola. Non poter entrare a scuola nascosta dietro ad un terremoto, né dietro ad un pazzo armato di pistola, o camuffata da un’esplosione programmata da chi sogni non ne ha più da tempo. Non ne ha mai avuti, probabilmente.

L’Italia sta attraversando una fase, da troppo tempo, di abbandono e decadenza morale, civile e politica senza precedenti. Anzi con precedenti pericolosissimi. Ribadire la propria fierezza di appartenere a un paese che ha piegato la schiena e non mostra più, in se stesso, nessuna fierezza, non aiuta.

Non serve essere fieri. Serve rimboccarsi le maniche. Accettare e ammettere che nonostante Michelangelo, Botticelli, Dante, Leopardi, Pirandello, nonostante la storia, l’estro, la genialità, un patrimonio culturale senza precedenti, abbiamo fallito. E siamo immobili. E cadiamo a pezzi. Cadiamo a pezzi perché non crediamo più in noi stessi. Non crediamo che si possa vivere meglio. Non crediamo di aver diritto ad una quotidianità degna. Non crediamo che si possa cambiare. Non crediamo che si possa pretendere il rispetto umano. Non crediamo che noi siamo solo ciò che vogliamo essere. E non siamo più Michelangelo e Botticelli e Dante. Noi, da troppo, infinitamente troppo, abbiamo scelto di essere qualcos’altro e di andarne fieri, nonostante tutto.

Io non sono fiera. Sono addolorata. Sono preoccupata e intristita. Non sono fiera. La mia fierezza non farebbe bene al mio paese. La mia indignazione sì.
Un’indignazione che vorrei condivisa e forte. E che non finisse domani, dietro a un pallone che rotola in un campo di calcio. Non conosco fierezza e non conosco disperazione. Perché voglio, pretendo e chiedo normalità. Per quei sedici anni che non saranno diciassette.

Mesi fa in Florida un ragazzo di diciassette anni, Trayvon Martin, è stato ucciso, probabilmente per il colore della sua pelle. Il suo omicida, nonostante non fosse stato incriminato immediatamente, in virtù di una legge incivile che tutela la “legittima difesa” usata preventivamente, a seguito dell’indignazione di un paese intero, sta affrontando le sue responsabilità e una giuria deciderà se è colpevole o no.