Chinaglia, un cocktail di contraddizioni

Agli intellettuali, ai puristi non è mai andato giù. Anzi, lo detestavano proprio. Persino Pasolini arrivò a contestarne la burbera ruvidezza: “Non fa altro che mettere il malumore agli altri, e tutti sanno che si gioca bene solo quando si è di buonumore”. Neppure Brera stravedeva per lui, lo bollò come “troppo greve” in occasione della sciagurata spedizione azzurra al Mondiale ’74, quando indignato per la sostituzione durante il match con Haiti spedì a quel paese il C.t. Valcareggi e sfasciò una cassa di bottiglie di acqua minerale al rientro nello spogliatoio. Rabbia che poi smaltì schiacciando un pisolino sotto un albero.

Chinaglia era così, istintivo e naif. E di quei giudizi se ne infischiava, la sua missione non era quella di compiacere la critica “alta”, Long John era nato per fare il gladiatore, il capopopolo, il bisonte sempre pronto a scavallare per il campo, il terminator programmato per abbattere qualsiasi difesa. Quando arrivò a Roma, dall’Internapoli, assieme a Pino Wilson, si presentò con la bombetta in testa ed un repertorio tecnico così limitato da far impallidire quei mille curvaioli aggrappati alla rete di recinzione dello stadio Flaminio. Era il ’69. Cinque anni dopo sarebbe diventato il totem di quella Lazio che vinse il titolo grazie soprattutto ai suoi 24 gol.

Chinaglia rozzo e cocciuto, ingenuo e litigioso, generoso e leale, trascinò quel gruppo imbottito di follia e talento e capace di mirabolanti metamorfosi, in partita un blocco granitico, in ritiro una sporca dozzina sempre armata, divisa in clan, agitata da continui regolamenti di conti. Maestrelli fu abilissimo a gestire quella polveriera, si concesse solo poche distrazioni, nulla poté quella volta che Chinaglia smise di giocare per inseguire furiosamente D’Amico colpevole di non averlo servito. Eppure, quella squadra impressionò per il suo calcio fresco, potente, innovativo. Long John non aveva stile, caracollava ingobbito, trattava la palla con la stessa durezza con la quale la vita trattò lui, figlio di un emigrato in Galles, obbligato a prendere a spallate il destino sin dai primi calci nel Swansea. Ma il gol è sempre stato il suo pane, anche nel periodo americano, quello con i Cosmos, assieme a Pelè, Moore, Beckenbauer.

Chinaglia, è stato, sull’erba, fuori, nel suo turbolento postcarriera, un formidabile, a tratti grottesco, cocktail di contraddizioni, estese anche a vicende giudiziarie che, forse, nel momento del distacco non meritano di essere sottolineate. Mai risolte, i temporali lo esaltavano, sempre nel mezzo a scazzottarsi con fulmini e saette. Una immagine simbolo? Riguardatevi quella discesa a Wembley con la quale propiziò lo storico gol di Capello a Shilton che ci regalò il primo successo sugli inglesi in casa loro. Un classico capolavoro alla Chinaglia, in quel guizzo prepotente confluirono in un lampo tutte le forze della natura. Come scrisse Arpino: “Giorgione, ragazzo immaturo disadattato disambientato disinserito”. Eppure, a suo modo, un gigante, buono, buonissimo, di quegli irripetibili Settanta.