Politica

Mario Monti dal summit di Seul: “Non mi interessa durare ma lavorare bene”

Il presidente del Consiglio ha citato la famosa frase di Giulio Andreotti ("meglio tirare a campare che tirare le cuoia") per confermare ancora una volta che il suo obiettivo non è 'quanto' governare ma 'governare' al meglio

L'arrivo di Mario Monti a Seul

“Non punto alla durata, ma a fare un buon lavoro”: Mario Monti cita la celebre frase di Giulio Andreotti  – “meglio tirare a campare che tirare le cuoia” – al summit sulla sicurezza nucleare in corso a Seul per chiarire a tutti che non ha intenzione di seguire né l’una né l’altra strada indicata nel motto del sette volte presidente del Consiglio. Come a dire a chi è rimasto in Italia, e in special modo il Partito democratico: se la riforma del lavoro non va bene così, allora non è di me che avete bisogno. Monti non sembra preoccupato dall’altro fondamentale aforisma attribuito ad Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”. Anche perché il presidente del Consiglio sa che il suo potere, in questo momento, è quello di lasciare i partiti al giudizio delle urne. Con quel che ne consegue.

Per mostrare ulteriormente la sua diversità, aggiunge che non serve agitare lo spettro di una crisi sulla riforma del mercato del lavoro, perché “rifiuterei il concetto stesso di crisi” e perché c’è un altro elemento che il professore mette sotto agli occhi della politica: ”Se il Paese, attraverso le sue forze sociali e politiche, non si sente pronto a quello che secondo noi è un buon lavoro, non chiederemo certo di continuare per arrivare a una certa data”.

Un messaggio chiaro e forte quello di Monti: i Paesi sede di fondi sovrani e istituzioni private che investono anche nel nostro Paese hanno “il palpabile desiderio di capire se, come e quanto intensificare i loro investimenti in Italia”, timorosi del ritorno di “vecchi vizi”, come l’invadenza della politica nell’economia. E’ vero che “alla fine di questo test, quando la politica tradizionale tornerà non sarà quella tradizionale” ma, se non bastasse, Monti avverte che ”finora il Paese si è mostrato più pronto di quello che immaginassi e se qualche segno di scarso gradimento c’è stato è andato verso altri protagonisti del percorso politico. Ma non verso il governo”.

I partiti sono il problema, dunque. E i partiti rispondono prontamente alla chiamata. Per primo Angelino Alfano, complici le voci di sondaggi poco lusinghieri per il Pdl e l’opportunità di rispedire la palla nel campo del Pd e dei sindacati, si affretta a dare ragione al presidente del Consiglio: “Monti ha detto che per lui è importante fare un buon lavoro e non tirare a campare. Siamo d’accordo: o si fa una buona riforma o nessuna riforma”. E sulla stessa linea si colloca Pierferdinando Casini. Il leader dell’Udc si dice certo che “quello di Monti è l’ultimo governo di questa legislatura”. Mentre Gianfranco Fini da Londra aggiunge: “Il tema della mobilità in uscita va affrontato anche nel settore statale”.

Nel gioco del cerino l’ultimo della fila rimane il Pd di Pierluigi Bersani. Il segretario, pur reduce dalla sostanziale unanimità consegnata alla sua relazione davanti alla direzione nazionale, è di fronte a un bivio. Da un lato la necessità di contenere lo scontento dell’elettorato che non gli perdonerebbe l’avallo della riforma dell’articolo 18 così come è uscita dal confronto con le parti sociali. Dall’altro la necessità di tener fede a quel “senso di responsabilità” verso il Paese che lo stesso Bersani ha ribadito ancora oggi davanti ai big del suo partito. C’è poi il terzo fronte tutto interno. Che lo vede perennemente nel guado tra l’anima democristiana del Pd, pienamente soddisfatta dal governo dei tecnici, e l’anima socialista che guarda fuori e strizza l’occhio a Vendola e alla Cgil. E così Bersani cerca la sintesi, riportando in Parlamento il lavoro di modifica al testo della riforma del lavoro.”Il Paese è prontissimo ad affrontare una situazione d’emergenza – dice il segretario dei democratici – ma per aiutarlo bisogna che ci sia un buon dialogo tra governo, Parlamento e forze politiche per non creare un distacco tra Paese e forze del governo”. Poi Bersani cerca di gettare acqua sul fuoco: “Non sopravvaluto le parole dette oggi da Monti, gliel’ho sentito dire una ventina di volte, fa parte del ragionamento di una persona chiamata a risolvere dei problemi senza essersi candidata, lui pone il tema di capire se ci sono le condizioni. Io gli rispondo: ci sono le condizioni”.

E se i partiti litigano a distanza, Monti incassa elogi dall’altra parte del pianeta. Dopo i bilaterali con i primi ministri di Singapore e Canada, Monti spiega di essersi “reso conto di quanto seguano da vicino gli sviluppi della situazione italiana e di quanto la vedano da vicino”. Poi anche il professore cita un termine schizzato in testa al vocabolario della politica in questi giorni: quello del quid, anche se in accezione diversa da quella usata da Berlusconi con Alfano. Sì, perché Monti osserva che “poi viene sempre la domanda sul ‘quid’ dopo il 2013. Io dico sempre che sono convinto, come molti, che la fase particolare che sta vivendo la politica in Italia si sta rivelando una cartina di tornasole che mostra ai partiti stessi una crescente maturità dell’opinione pubblica e una disponibilità da parte dei cittadini a sopportare senza eccessive reazioni sacrifici anche pesanti perché ne hanno compreso più che in passato la necessità”.

Un patrimonio da difendere perché ”sono convinto che quando tornerà la politica tradizionale non sarà più quella tradizionale perché avrà fatto tesoro di quanto questo test sta rivelando sulle percezioni e gli stati d’animo degli italiani, diventati più esigenti verso chi governa e responsabilmente comprensivi di non dover essere solo destinatari di promesse generiche sul futuro ma anche di sacrifici se nel loro stesso interesse a lungo termine”. A buon intenditor.