Scuola

Informare sull’istruzione: una funzione politica

Notiziona: i dati pubblici sono pubblici. Nei giorni scorsi si è parlato – chi con enfasi modernista, chi con scetticismo realista – del fatto che il Miur (grazie alla consulenza dei 6 trentenni cooptati dal ministro all’inizio del suo mandato: per partecipare alla selezione occorreva rigorosamente avere meno di 40 anni) abbia finalmente avviato un’operazione di informazione per tutti gli utenti che si accostino al suo sito. Da qualche giorno sono in rete buona parte delle informazioni presenti nella banca dati del ministero.

Basta andare sul sito del Miur, cliccare sulla casella della «Scuola in Chiaro», e l’interfaccia proporrà un’opzione nuova di zecca con su scritto: “Dati, accesso e riuso delle banche dati”. Benvenuti nell’Open Miur. Utile, indubbiamente, soprattutto per chi come me e come tanti si è trovato a studiare il sistema dell’istruzione in una situazione paradossalmente paleolitica, dove l’accesso a dati rigorosamente non aggiornati si presentava (soprattutto negli ultimi anni, quando Gelmini e consiglieri vari hanno deciso che la pubblicazione e la trasparenza costituivano un orpello inutile) come una gimkana faticosa e dagli esiti incerti. E, d’altra parte, come avrebbe potuto Maria Stella continuare ad affermare fasti e successi della propria (contro)riforma portando alla luce le miserie della scuola italiana?

Ora, però, mi pare si stia arrivando all’eccesso opposto. Si magnificano, cioè, atteggiamenti, provvedimenti, decisioni che dovrebbero in realtà far parte dei margini dell’ordinaria amministrazione di un Paese civile. Un po’ come la famigerata sobrietà – che è diventata un valore aggiunto e non un ovvio dovere, solo perché siamo stati governati dall’impudicizia per 20 anni – anche il tam tam mediatico sulla presunta innovazione tecnologica, al Miur, come altrove, carica di significati impropri situazioni che non dovrebbero avere nulla di eccezionale. Per l’appunto, che i dati pubblici siano pubblici dovrebbe essere prassi quotidiana ed obbligatoria, non frutto della consulenza della new generation digital native.

In primo luogo, appare evidente in molti media e commentatori una certa confusione tra contenuti pubblici per ragioni costituzionali (nel senso della Costituzione della Repubblica) e contenuti open, nel senso di non soggetti al copyright dell’industria culturale. I dati dell’istruzione (pubblica) non possono che essere pubblici, pubblicizzati, trasparenti, condivisi. Renderli tali è un compito politico-istituzionale quasi scontato, di un ministro appunto della Repubblica e del suo ministero. L’attuale sovraesposizione degli aspetti tecnologici (formato dei dati e applicativi e dispositivi in grado di leggerli e di renderli leggibili per tutti) finisce per trasformare questa dovuta operazione di trasparenza in un eccezionale merito tecnico-culturale. Le tecnologie e i formati aperti o “chiusi” (in gergo, proprietari) dei dati non sono altro che strumenti per implementare decisioni, volontà, omissioni: sono effetti, non cause.

Le cause sono altrove. I problemi della scuola, quelli da affrontare con urgenza, non possono attendere. E difficilmente operazioni tecnicali – per quanto ben riuscite – potranno costituirne una soluzione, o anche una semplice risposta.