Media & Regime

Ma io difendo Michele Serra

All’epoca di Twitter, un’amaca di 1000 battute fa più rumore di una marea di pensieri in 140 caratteri. Ieri Michele Serra ha dedicato la sua rubrica quotidiana su Repubblica a Twitter. L’editorialista ha raccontato una serata davanti alla tv in compagnia di “un amico molto interconnesso”. A colpirlo, “l’assoluta drasticità” dei Tweet pubblici con i quali gli utenti commentavano una trasmissione televisiva e il suo conduttore: “Per alcuni era un genio, per altri un coglione totale, non esisteva un territorio intermedio”. Da qui, Serra si augura che sia “altrove, rispetto a quel cicaleccio impotente, che si impara a leggere e a scrivere”. Dovessi twittare il concetto, la chiosa, “direi: Twitter mi fa schifo. Fortuna che non twitto”.

Questa “amaca”, e il suo autore, naturalmente sono stati ieri l’argomento più discusso sul social network. L’attacco è frontale: si va da “sti cazzi”, alle accuse: “matusa”, “paleolitico”, “istiga un conflitto generazionale/digitale”. Ai media piace parlare di sé. E così su Twitter: quasi sempre le discussioni più calde si interrogano su chi meriti o meno di finire nelle hashtag. Gli utenti a volte si sentono una setta: come se oggi la più moderna forma di socialità possibile, sia quella dei retweet. Eppure Serra esprime un punto di vista, disconnesso, ma legittimo e profondo – oltre che vero. Gli rispondono solo con brevi insulti e non potrebbe essere altrimenti: non di tutto si può parlare in 140 caratteri.