Politica

Chi paga il conto della sfiducia nella politica?

Qualche giorno fa ho inviato una mail tra il serio e il provocatorio ai due soci dell’agenzia di comunicazione per cui lavoro, al direttore commerciale e al direttore marketing.

Ho scritto loro: “ci prendiamo un anno sabbatico dalla comunicazione politica?

Per fortuna non siamo un’agenzia che fa solo comunicazione politica e quindi, per fortuna, non siamo obbligati a fare solo campagne elettorali. Questo ci permette un grande “lusso etico”: lavorare per candidati di centrosinistra, ossia dell’area politico-culturale a cui  tutte le persone che lavorano sulle campagne elettorali da noi guardano con favore. Questa scelta aziendale per me è una condizione irrinunciabile: non riuscirei a lavorare per politici di centrodestra. Per gli addetti ai lavori questa è una posizione addirittura pericolosa: secondo alcuni svaluta il ruolo del comunicatore politico e ci rende “partigiani”, non professionisti.

Per me è l’esatto contrario: non si dà il massimo se non si è motivati e non si è motivati se non si crede davvero nel potenziale di cambiamento di un candidato, soprattutto quando il tuo compito non si limita a ideare un buono slogan e un eccellente manifesto ma invece si deve lavorare sulla strategia, consigliare il posizionamento, persino dire la tua su cosa è giusto fare nei rapporti con le altre forze politiche.

Alla luce di tutto ciò, la mia domanda può apparire fuori luogo agli occhi dei lettori. Se possiamo scegliere, perché dovremmo rinunciare a tutto a priori?

Ho scritto quella mail dopo aver letto i dati sulla sfiducia nei partiti, giunta oramai al 4% secondo Demos e all’8% secondo Ispo e Ipsos e ho pensato che questo clima complessivo potesse rappresentare un potenziale danno traslato per tutte le persone che hanno a che fare con la politica.

Tutto sommato a chi fa comunicazione politica va meno male che ad altri: nel nostro caso l’importante è fare un lavoro deontologicamente corretto, guadagnare soldi puliti lavorando per persone oneste.

Ma pensate ai militanti dei partiti, alle centinaia di migliaia di persone che animano la vita dei circoli, dei comitati, delle feste, delle assemblee. In Italia c’è ancora tanta gente che lo fa per passione e per spirito di servizio, nel convincimento (giustissimo) che l’unica strada percorribile per migliorare la classe dirigente italiana sia presidiare i luoghi della rappresentanza, ossia i partiti, come la Costituzione, le leggi elettorali nazionali e locali e una buona dose di buon senso (si può votare chi si candida e ci si candida nei partiti) prevedono.

Vi faccio un esempio: se Boni avesse realmente intascato delle tangenti, questo sarebbe un bene o un male per un militante di un qualsiasi partito? Secondo me è in ogni caso un male, perché oggi è veramente difficile uscire dalla tentazione di sbrigarsela con un “siamo tutti uguali”.

Se Lusi avesse effettivamente distratto soldi pubblici per finanziare campagne elettorali, pensate che chi fa comunicazione politica, a qualsiasi livello, non subisca un enorme danno d’immagine, anche solo indiretto, e che non passi quindi il cattivo pensiero che le campagne elettorali siano sempre e solo il luogo del compromesso, del ricatto, dell’oscurità, e al diavolo chi prova a fare onestamente questo lavoro?

Ne discendono altre tentazioni semplicistiche ancora più pericolose, e cioè che chi milita in un partito e non lo lascia dopo fatti del genere è comunque complice di questi comportamenti, che chi fa politica attiva lo fa sempre e comunque in cambio di qualcosa, che chi è nei partiti “appartiene a qualche corrente'”, come se non avesse pensieri propri, che chi si candida mira sempre e comunque a sistemare suoi interessi personali e non a servire una comunità, che chi fa le campagne elettorali (da volontario come da professionista) ha sempre accesso a posti di lavoro, finanziamenti, bandi truccati in caso di vittoria.

I dirigenti politici, sia chiaro, hanno molte responsabilità se siamo arrivati sin qui. Proprio l’esclusività della rappresentanza, e cioè il fatto che per essere eletto devi passare da un’organizzazione politica (che sia un partito o un movimento poco importa: l’importante è che ci siano regole codificate, e spesso regole non scritte, con cui chiunque deve scendere a patti), ha portato i ‘capi’ a non ritenere il cambiamento davvero utile. Se ci pensate tutti i parlamentari sono lì, dal 2008, ogni mese portano a casa lo stipendio e, leggi alla mano, ne hanno pieno diritto. Se c’è qualcuno che paga il conto della sfiducia nella politica, di certo non sono loro.

In queste settimane i partiti presenti in Parlamento danno la sensazione che ogni riforma sia mossa prima di tutto dalla necessità di difendere parti dello status quo significative, più che dalla volontà di un’apertura totale alla cittadinanza (il dibattito sulla legge elettorale è definitivamente tramontato: io credo che si andrà a votare col Porcellum, ma sarò felice di essere smentito).

Per tutte queste ragioni io, da tecnico della comunicazione politica e da semplice appassionato, ho paura di essere etichettato a prescindere da ciò che faccio e dico. Ecco perché ho scritto quella mail.

La risposta è stata scontata: non ce lo possiamo permettere. Ci siamo già autolimitati come mercato potenziale, ci sono gli stipendi da pagare, non dobbiamo vergognarci se facciamo onestamente il nostro lavoro e soprattutto non siamo nessuno per poter dare una patente morale così forte a un’intera categoria della vita pubblica. A quest’ultimo aspetto, devo essere sincero, non avevo pensato: scrivendo quella mail, di fatto ho rischiato di alimentare quella spirale di sfiducia da cui invece vorrei uscire.

Per questo, a chi fa politica dico grazie e dico di non stringere i denti. A chi fa comunicazione politica dico che è un brutto momento e che dobbiamo stringere i denti anche noi.