Dal 1981 al 2008, 663 milioni di persone sono riuscite a sfuggire alla totale indigenza. Buona parte del merito dei progressi va paradossalmente ascritta alla Cina. Pechino non è infatti solo un grande acquirente delle materie prime ma ha anche avviato importanti progetti infrastrutturali sul posto attraverso un fondo di investimento creato ad hoc
Gli ultimi dati complessivi si riferiscono al periodo 2005-2008, dunque prima dell’inizio della crisi. Tuttavia le prime indicazioni sugli anni successivi confermano la tendenza al miglioramento. Se si allungano i termini del confronto si scopre che dal 1981 al 2008, 663 milioni di persone sono riuscite a sfuggire alla totale indigenza e che dal 1991 ad oggi il numero di poveri si è dimezzato. Con buona pace di chi vede nell’ascesa cinese l’origine di tutti i mali, buona parte del merito di questi progressi va ascritta proprio al gigante asiatico. I benefici del boom economico della Cina si sono infatti estesi non solo alle aree limitrofe del sud est asiatico dove il tasso di povertà è sceso al 39%, quasi dimezzandosi, ma si sono propagati fino in Africa e Sud America. Pechino non è infatti solo un grande acquirente delle materie prime di cui questi continenti sono ricchi ma ha anche avviato importanti progetti infrastrutturali sul posto attraverso un fondo di investimento creato ad hoc.
Festeggiare queste novità sarebbe ovviamente fuori luogo visto che una persona cinque nel mondo vive ancora l’incubo e la dannazione della povertà. Un miliardo e 290 milioni di persone continuano infatti a sopravvivere con meno di 1 dollaro e 25 centesimi al giorno e come spiega Martin Ravallion, responsabile delle ricerche della Banca Mondiale, “con l’attuale tasso di miglioramento nel 2015 le persone in povertà estrema saranno ancora circa 1 miliardo”.
Del resto la povertà è difficile da debellare proprio perché si regge su meccanismi perversi che si autoalimentano: Scarsa istruzione, difficili condizioni sanitari, mancanza di scuole e infrastrutture. Tuttavia la stessa banca mondiale, che gestisce buona parte dei grandi progetti di aiuto, dovrebbe porsi qualche interrogativo. Negli ultimi 50 anni sono stati spesi 2500 miliardi di dollari in progetti di aiuto eppure ogni anno 10 milioni di bambini continuano a morire di malattie facilmente curabili a costi irrisori e oltre un miliardo di persone hanno difficoltà a procurarsi acqua potabile.
William Easterly, professore alla New York University con un passato alla Banca Mondiale, ha raccontato e analizzato gli errori delle grandi organizzazioni internazionali nel libro The White Man’s Burden. Sono ben documentate e aspramente criticate le tante esperienze di piani faraonici meravigliosi e risolutivi nella teoria ma inutili e fallimentari nella pratica. Nel 2005 vennero ad esempio spesi milioni di dollari per rifornire la Tanzania di zanzariere contro la malaria. Peccato che le popolazioni locali preferirono in gran parte riutilizzarle come reti da pesca o veli per abiti da sposa. La conclusione a cui giunge Easterly è che l’unico piano che funziona è quello di non avere piani. Ossia adottare approcci estremamente flessibili e pragmatici che si adattino alle peculiarità dei singoli paesi e delle loro popolazioni.