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Afghanistan, la protesta per il rogo del Corano si sta trasformando in rivolta contro gli Usa

L'ondata di violenza scoppiata dopo il ritrovamento in un base americana di copie del testo sacro date alle fiamme non accenna a placarsi. Così come le scuse di Obama, anche l'appello alla calma di Karzai è caduto nel vuoto

Nel sesto giorno di proteste dopo il ritrovamento alla base di Bagram, in Afghanistan, di copie del Corano date alle fiamme con la spazzatura, un manifestante è morto e molti altri sono rimasti feriti in una manifestazione culminata nel lancio di una granata contro una postazione militare di Isaf nella provincia settentrionale di Kunduz. Nell’episodio sono rimasti feriti anche sei soldati della Nato e una quindicina di membri delle forze di sicurezza afgane. Nell’area di Imam Sahib, uno dei distretti della capitale provinciale dove ha sede il compound Nato, si erano radunate domenica mattina circa 2mila persone spinte anche dal fatto che, il giorno prima, sempre a Kunduz, la polizia aveva sparato sulla folla uccidendo due persone. Altri incidenti si sono verificati nella vicina provincia di Samangan mentre i morti accertati fino a questo pomeriggio in tutto il Paese sarebbero almeno 29. Molte decine i feriti.

L’Afghanistan insomma continua a bruciare e le fiamme, che durano ormai quasi da una settimana, non si sono attenuate, come si sperava, dopo la rituale festività del venerdì. L’uccisione di due militari americani di rango ieri nella capitale Kabul ha poi dato nuova linfa a quella che, più che una protesta, assume adesso i connotati di una vera e propria rivolta che ha come oggetto le forze occupanti. La situazione è così grave che ha obbligato il presidente Hamid Karzai a rinnovare il suo appello alla calma con un’apparizione televisiva nella quale, pur condividendo la protesta per i fatti di Bagram, ha incitato gli afgani a manifestare solo pacificamente.

La tensione resta elevata in tutto il Paese e la guardia resta alta anche nella Capitale, dove ieri un funzionario del ministero degli Interni ha ucciso con la sua arma d’ordinanza due consiglieri militari americani in un’area del palazzo riservata agli stranieri e considerata ultra-protetta. Episodio che ha fatto ordinare l’immediato ritiro di tutto il personale straniero dislocato nei vari ministeri afgani, interrompendo di fatto la catena di coordinamento tra le forze di sicurezza afgana e la Nato.

Il killer ha già un nome: si tratterebbe di Abdul Saboor, anche noto come Salangi, un funzionario di 25 anni che si è dato alla macchia. Originario di Parwan. Abdul era entrato in polizia, riferisce l’emittente afgana ToloTv, due anni fa e pare fosse poi diventato un uomo dell’intelligence, dotato dunque di molte chiavi d’accesso compresa una linea protetta con cui comunicare all’esterno. L’uomo ha sparato a un colonnello e a un maggiore americani che probabilmente non sospettavano nulla e forse anzi lo conoscevano. Il fatto ha gettato nello sconcerto la Nato il cui comandante, il generale americano John Allen, ha deciso l’immediata evacuazione del personale Nato nato dai luoghi sensibili della Capitale pur confermando la fiducia nelle forze di sicurezza nazionali.

L’inchiesta sulla dinamica del duplice omicidio è ancora in corso e per ora Abdul è soltanto un indiziato e forse nemmeno l’unico. La sua casa di famiglia a Parwan è già stata visitata dagli inquirenti ma senza esito, mentre si cerca di capire se avesse o meno un appoggio esterno. Non troppo credibile appare invece la rivendicazione dei talebani, secondo i quali il killer sarebbe penetrato nel ministero dove avrebbe ucciso non due ma quattro funzionari americani.

Infine la vicenda sta facendo aumentare le carte in mano ai repubblicani americani, cui le scuse ufficiali di Barack Obama a Karzai per i fatti di Bagram non sono affatto piaciute. Per chi considera il ritiro delle truppe voluto dal presidente un atto prematuro e pericoloso, l’omicidio dei due alti gradi americani non è che un ulteriore atout. Nuova linfa all’arco di chi vorrebbe una più lunga permanenza delle truppe americane in Afghanistan e il pugno più duro in guanti meno morbidi.

di Emanuele Giordana