L’azione di “guerriglia mediatica” è stata “rivendicata” dal gruppo Solidarnost in vista del voto del quattro marzo quando il primo ministro tornerà presidente delle Federazione. Onu e Ue temono altri brogli, ma sono pronte a far finta di niente in virtù del sostegno russo alle sanzioni contro Iran e Siria
Dopo quella risicata vittoria, per la prima volta da molti anni, decine di migliaia di cittadini russi – moltissimi i giovani – sono scesi in piazza per protestare contro Putin. A lui si era rivolto anche Mikhail Gorbaciov, invitandolo a “celebrare di nuovo le elezioni”.
Le cariche della polizia in assetto antisommossa e gli arresti di alcuni dissidenti di spicco, tra cui il blogger nazionalista anticorruzione Aleksei Navalny – rilasciato dopo due settimane di prigione – non hanno però fiaccato la protesta. Anzi. Domani a Mosca e in altre città del Paese sono previsti nuovi cortei contro l’inquilino del Cremlino. La grande incognita che pesa sulla partecipazione è il tempo: nel week end a Mosca si prevede che la temperatura scenda fino a -25, troppo per manifestare, forse, anche per gli standard russi. L’obiettivo dei movimenti è impedire che Putin venga rieletto presidente alle prossime elezioni, previste per il 4 marzo. La Costituzione russa prevede che un presidente non possa fare più di due mandati consecutivi, e Putin ha aggirato l’ostacolo normativo grazie alla staffetta con Medvedev: se Zar Vladimir vincerà le elezioni, come del resto previsto da tutti gli esperti di cose russe, Medvedev tornerà a fare il primo ministro. Magari fino alla prossima staffetta elettorale.
Tra i giornalisti stranieri a Mosca, però, circolano anche analisi di più ampio raggio. Molti fanno notare che di fronte alle proteste dei cittadini russi, le più grandi degli ultimi anni, la reazione occidentale è stata piuttosto tiepida. Qualche comunicato di sdegno e rammarico, certo, e la “preoccupazione” espressa dalla Casa bianca, dall’Onu e dall’Ue. Nulla di più. Il perché di questa quiete che a molti è sembrata innaturale andrebbe cercato altrove, in particolare a Damasco e a Teheran.
Mosca infatti continua a tenere duro sul testo della risoluzione Onu, chiesta anche dalla Lega Araba, che condanna il regime di Damasco e su una nuova stretta delle sanzioni internazionali contro l’Iran per il dossier nucleare. Lo scambio di cui si mormora a Mosca è che l’Occidente potrebbe chiudere un occhio sulle possibili irregolarità elettorali del prossimo 4 marzo, nonché su un certo livello di repressione del dissenso in Russia, in cambio del via libera per una soluzione in Siria e in Iran: sanzioni più dure contro Teheran, un esilio più o meno dorato per Bashar Assad finalmente convinto a mollare la presa. La linea rossa della diplomazia russa sarebbe l’intervento militare diretto, a cui Mosca rimane assolutamente contraria.
L’equazione reggerebbe, in puro stile realpolitik. Ma manca un’incognita essenziale: i russi. Se e quanto i cittadini della Federazione saranno disposti a sacrificare i propri diritti sull’altare dei compromessi internazionali è oggetto di congetture e ipotesi, specialmente dopo l’esperienza delle Primavere arabe. Lo striscione sul Cremlino, quindi, ricorda a tutti, da Mosca a Washington, che le sorprese potrebbero non essere ancora finite.
di Joseph Zarlingo