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Gran Bretagna lontana dall’Europa. E viceversa

Sabato mattina facevo campagna per Ken Livingstone, candidato sindaco a Londra per il Labour Party, ed era l’incertezza il sentimento dominante nelle discussioni con gli elettori. Mi trovavo a Dalston, quartiere cosmopolita di Hackney, dove sacche di povertà estrema convivono con una nuova generazione di artisti, professionisti e intellettuali liberal. Al di là delle provenienze, ho trovato in tutti sgomento trasversale di fronte alla decisione del primo ministro Cameron, le cui conseguenze sono inimmaginabili, e tutte da vedersi nei prossimi mesi.

Non è certo una sorpresa che la Gran Bretagna sia anti-Europa, o quanto meno restia a subire le influenze di Bruxelles. Ma quanto è avvenuto venerdi scorso non c’entra con le tendenze “isolane”: a mio parere si è trattato di un puro fiasco politico, dalle conseguenze disastrose. Per spiegarmi, provo prima a fare un riassunto della situazione.

Il summit di Bruxelles ha segnato qualche progresso nella direzione di quella maggiore compattezza fiscale auspicata dal presidente della Bce Mario Draghi. Certo, non si sa quanto, e se questo basterà a salvare l’Euro; ma i leader europei sono convinti che possa aiutare per lo meno a rassicurare i mercati, dando un segnale di serietà in materia di politica fiscale comune.

Inoltre, il budget allocato per il salvataggio dei paesi in crisi è certamente più credibile e significativo, particolarmente se in futuro decideranno di contribuire paesi ricchi come Cina e Brasile: il summit ha stabilito che il nuovo bailout fund avrà 500 miliardi di euro. I leader europei hanno anche iniziato a discutere misure per la crescita, il mercato del lavoro e la competitività.

Il quadro rimane comunque drammatico. Ad esempio, ancora non c’è una risposta convincente su come farà l’Italia a prendere in prestito i 400 miliardi di euro di cui ha bisogno per ripagare i titoli in scadenza nei prossimi 12 mesi. Non solo, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha già avvertito che ci potrebbe essere un declassamento dei paesi dell’eurozona.

Insomma: ancora non si vede una via di uscita, ma è stato compiuto un primo passo.

Il primo ministro Cameron si era presentato al summit pensando che avrebbe assunto la leadership dei dieci paesi fuori dall’Euro contrari ai nuovi accordi fiscali.

Così non è accaduto: persino i paesi più restii (come l’Ungheria) hanno deciso di rimandare la decisione al Parlamento, mentre invece Cameron ha rifiutato subito, rimanendo da solo tra i leader europei a rifiutare l’accordo intergovernativo per il salvataggio dell’Euro. Il primo ministro britannico aveva infatti insistito perché ci fosse un protocollo per proteggere la City di Londra dai nuovi accordi fiscali; gli è stato risposto di no, e quindi ha bloccato l’accordo imponendo il veto del suo Paese.

Io credo si sia trattato in primo luogo di un fiasco politico: come mai Cameron non ha cominciato il negoziato prima del summit? E perché è andato via un giorno prima, senza trattare fino all’ultimo minuto per cercare di ottenere qualcosa di più? Il risultato finale è infatti deludente da ambedue i lati: la Gran Bretagna, oltre a essere l’unico paese a non far parte della coalizione per salvare l’Euro, non ha strappato alcuna concessione per la City.

Ciò che è realmente accaduto è che il primo ministro ha subito la pressione della destra Tory anti-europea, quella che lo tiene sotto scacco e che, recentemente, si è ribellata in parlamento chiedendo maggiore autonomia da Bruxelles.

Cameron sostiene di aver agito così per tutelare gli interessi dello Square Mile, la City di Londra; tuttavia gli economisti hanno trascorso il weekend domandandosi quali fossero i successi di Cameron per la City. Un esempio: la Robin Hood Tax, invisa ai trader della finanza, rimane un progetto valido per gli altri paesi europei, i quali difatti lo perseguiranno. La tassa si applicherà alle banche registrate nei loro paesi, incluse, ad esempio, le banche tedesche che operano a Londra.

È quindi discutibile quanto davvero gli interessi della City siano stati protetti, e al contempo il primo ministro è riuscito a farsi dipingere come difensore degli stessi avidi capitalisti anglosassoni che hanno provocato la crisi economica! Un capolavoro di astuzia politica.

Avantieri Repubblica citava un sondaggio secondo il quale i britannici sarebbero tutti d’accordo con il Premier. I dati sono tratti dal Daily Mail, quotidiano vicino al partito Tory. Bisogna essere cauti nel citare informazioni di questo tipo, perché il Daily Mail non è di certo neutrale, a differenza dei vari centri di ricerca sociale e rilevazione statistica, attivissimi in Uk.

La realtà è che tutti gli altri partiti credono adesso di poter guadagnare dal comportamento di Cameron.

La vera incognita é il vice-premier Nick Clegg, dei Lib Dem, partito che é sempre stato pro-Europa. Clegg ha sferzato un attacco molto pesante contro Cameron, suscitando l’ira dei conservatori e di alcuni Lib Dem stessi. Il partito di Clegg ha in questi mesi abdicato alla sua natura liberal, così come a quella democratica, soccombendo di fronte alle politiche conservatrici in materia di sanità o di istruzione (accettando un aumento delle tasse universitarie contrariamente alle promesse elettorali). Forse troppo e troppo per Clegg anche se non c’é da farsi illusioni: é già stato chiarito che la coalizione non soffrirà di quel che è accaduto in Europa.

Difficile sapere cosa succederà nei prossimi mesi. Certo, c’è la consapevolezza che sia avvenuto qualcosa di irreversibile. Al di là del tifo da stadio e dei sondaggi del Daily Mail, su questo ci si interroga; poiché, volenti o nolenti, il futuro dell’eurozona è la variabile più grande nel destino della stessa Gran Bretagna.