Cronaca

Come Magri, liberi anche di morire

Accompagnare un uomo che vuole morire fino all’ultimo passo di questa scelta è un fardello che poi diventa una parte inalienabile dell’anima di chi resta. Lucio Magri ha voluto accanto a sé l’amico medico, altri scelgono i compagni di vita, più di rado ci sono i figli. La solitudine, dell’ultimo atto volontario di un’esistenza, pare non sia prevista. Qualcuno da salutare ci vuole sempre, qualcuno che si sacrifichi a essere “il salutato” pure. Difficile giudicare quale sia il ruolo più duro.

Quando comincia la corsa verso la Svizzera, a tutto questo uno non ci pensa neppure troppo. Si poteva andare anche in Olanda, Belgio, Lussemburgo, ma la Svizzera è dietro l’angolo. E’ al confine che si realizza quanto questo Paese, che ha una clinica per “l’ultimo viaggio” quasi in ogni cantone, sia dotato di un valore che negli ultimi anni in Italia si è liquefatto sullo scempio politico compiuto sui casi Welby ed Englaro; la pietà e la compassione per gli ultimi, come sono quelli che non hanno più alcuna speranza. E’ una morte in esilio, certo. Ma se l’alternativa è quella di rimanere prigionieri di un corpo sofferente che fa sembrare la morte come un sollievo, allora, forse, quell’ultimo viaggio in treno dentro le montagne più belle del mondo e fino a un bosco con una casa blu che sarà l’ultimo rifugio della vita, può apparire davvero un viaggio di speranza.

In Italia è difficile morire, ma anche in Svizzera non ti regalano nulla. C’è persino la lista d’attesa per suicidarsi, il che è grottesco. Prima di partire bisogna dimostrare di essere nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, e questo già costa caro. Poi arriva l’associazione Exit Italia, quella che, insomma, è più attiva sul fronte dei viaggi suicidi verso la Svizzera, e organizza il resto. Le statistiche dicono che ogni anno arrivano a Zurigo, nella zona industriale di Pfaffikon, oppure a Losanna, dove c’è l’unico ospedale che mette a disposizione stanze per suicidarsi, ma non il personale, o – ancora – a Berna, dove c’è la sede della famosa Dignitas, la madre di tutte le “case” per il “fine vita assistito”, circa una trentina di italiani. Un numero che negli ultimi anni ha subito un’impennata perchè “le discussioni sul testamento biologico – ricorda Emilio Coveri, presidente della Exit – hanno aiutato parecchio”. Il business, anche.

Molto prosaicamente, in Svizzera c’è un prezzo politico di base per morire; costa circa 3 mila euro. “Che poi – osservava cinicamente sempre Coveri – e comunque meno di quanto costa un funerale in Italia”. Qualche mese fa fu chiesto agli svizzeri, attraverso un referendum, di rendere punibile qualsiasi forma di istigazione e di aiuto al suicidio e soprattutto a porre fine al ‘turismo della morte’; l’84% ha detto no. “Il suicidio è una magnifica opportunità – sosteneva infatti il fondatore della Dignitas, Ludwig Minelli – ma solo per chi non ne ha altre”. E chi se l’è giocate proprio tutte, a un certo punto arriva davanti a tre medici che – sembra una beffa – valutano lo stato di salute. Del “paziente”. Poi gli fanno scegliere tutto, persino le lenzuola del letto e la musica da sentire; si può morire ascoltando Mozart o i Pink Floyd. Fanno tutto loro, persone temprate a sostenere quotidianamente emozioni forti, ma che non dimostrano alcuna durezza, anzi, sanno lasciare spazi alle parole e ai silenzi, misurano in modo quasi subliminale se “il paziente” può essere sull’orlo di un ripensamento e a quel punto fermano tutto il processo; è la volontà che la fa da padrona in una stanza di quattro metri quadrati, un letto, una finestra senza tende, un quadro, due sedie, un tronchetto della felicità come pianta ornamentale. La scelta finale è intima, solitaria. Perchè quelle due pasticche anti vomito a cui fa seguito un miscuglio di Phenobarbital e sonnifero (che prima ti addormenta e dopo 3, 4 minuti ti uccide) lo si deve prendere da soli. Nessun dolore, dicono. Per chi resta è tutta un’altra storia.