Saturno

Ebraismo: lingua e vita

Casa editrice Marcos y Marcos

di Roberto Coaloa

Cosa succede quando un traduttore professionista, interprete di scrittori come Lev Tolstoj e John Steinbeck, si cimenta in un’opera narrativa? Il risultato, come dimostra Bruno Osimo, allievo di Peeter Torop e docente di traduzione, è sorprendente, affascinante e divertente.

Il “Dizionario affettivo della lingua ebraica” coinvolge subito il lettore in una autobiografia bizzarra, suddivisa in quarantacinque voci, nella quale apprendiamo l’originale noviziato culturale dell’autore. Originale per due motivi: l’impronta materna, vero leitmotiv del libro, e l’incontro, avvenuto dopo la Shoah, tra zii fuggiti in Inghilterra, Svizzera e America durante la Catastrofe, con la cultura ebraica.

Il giovane Bruno scopre che la lingua parlata della madre non racconta la vita come appare, reale, ma come essa apparirebbe se fosse priva delle brutture del quotidiano, se non mettesse disagio, se non suscitasse continui rovelli interiori. Apprendiamo, quindi, in una pagina che ricorda (ironicamente) Marcel Proust, quasi novant’anni dopo che lo scrittore francese, gustando una madeleine, vide risorgere tutta la sua infanzia, che “Era un po’ fortino” vuol dire “l’odore di dolci era talmente forte che faceva venire la nausea”. La lingua della madre funziona come un “tampone”, la sua lingua, così la definisce Osimo, è il «tampònico» o «mammese». “Mi raccomando” vuol dire “È questione di vita o di morte”; “Ti voglio bene” si dice “Complimenti”.

Una mattina, e siamo alla voce “Alessandria”, il giovane Bruno racconta dell’Altra Città. Altra rispetto a Milano, dove è nato e vive l’autore. Alessandria è il posto «dove si va per certe feste molto importanti». È anche il luogo che ricorda un tragico destino della famiglia, dove il nonno, con l’ausilio non desiderato del famigerato Regio decreto dell’anno 1938, promulgato da Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della nazione Re d’Italia Imperatore d’Etiopia, perde la grande farmacia intestata alla famiglia Osimo e diventa spazzino. Dopo la guerra, la famiglia Osimo si ritrova ad Alessandria dallo zio Arturo. Ma prima di partire da Milano, il sabato mattina, il giovane Bruno si ferma con i genitori all’angolo tra via Silva e via Monte Bianco, «dove c’era il negozio preferito della mamma: lo spaccio dell’Alemagna, dove vendevano le cose malriuscite e impresentabili» (che in «tampònico» suona: “Sono cose buonissime, solo che non sono venute perfette, ma a noi cosa importa?”).

Tutte le sensazioni del giovane scrittore e traduttore sono intimamente legate a delle idee o a delle evocazioni. Ed è stata l’esperienza di traduttore dal «mammese» che insegna a Bruno Osimo l’arte della differenza, la difficoltà di comunicare e l’arte di adattare e di adattarsi. Tutto questo si chiarisce alla voce finale del “Dizionario affettivo”, dedicato alla “Traduzione”, nella quale si conclude il viaggio formativo di Osimo, legato al lavoro letterario, una malattia da cui non si guarisce. Non c’è rimedio. Ti svuota, ti asciuga dentro. Come avere un parassita.

In questo viaggio l’autore confessa le sue passioni di lettore, ma anche quelle di cinefilo e musicista, da Jane Austen, a Luis Buñuel, a Francesco De Gregori. «La traduzione è un po’ dappertutto, a ben vedere. Non succede solo quando un testo va riformulato in un’altra lingua – spiega Osimo – e dire “lingua”, poi, è un’astrazione. I traduttori non sanno le lingue, sanno i discorsi. Non conoscono la grammatica, conoscono l’uso. Non sanno le prescrizioni, conoscono i registri». Chi diventa traduttore? «Il traduttore è uno che ha avuto un’infanzia difficile, e che per sopravvivere emotivamente si è adattato. E, in casi estremi, compila dizionari affettivi».

Aggiungiamo che ci troviamo davanti a un romanzo autobiografico, intriso di cultura ebraica e di un atavismo letterario che collega l’autore Bruno Osimo alla tradizione narrativa russa, a Tolstoj in particolare. Come osservò Madame Daria Olivier, che tradusse in francese l’opera di Tolstoj, fu il profeta di Jasnaja Poljana, settanta anni prima di Marcel Proust, a far risorgere la sua infanzia attraverso gli odori della menta, dell’acqua di Colonia e della camomilla. Osimo riconquista il suo passato a partire dal suo piatto preferito: olive e grana. Nel “Dizionario affettivo” di Osimo, come in Infanzia di Tolstoj, si ritrova uno charme profondo tutto legato alla semplicità, alla naturalezza del racconto, a un tono di sincerità e di verità sostenuto per tutte le pagine senza nessun cedimento.

L’ebraismo aggiunge al libro di Osimo un fascino maggiore poiché esso si manifesta in gesti concreti, come espressione di un antico quotidiano ancora attuale. La tradizione di una cultura millenaria diventa in Osimo parte del proprio “stile” di vita, di cui lo scrittore è messaggero.

Nell’ambito della rassegna “Undicimila Verbi”, venerdì 18 novembre, alle ore 21.30, sarà presentato il libro Dizionario affettivo della lingua ebraica di Bruno Osimo presso le Cave di Moleto di Ottiglio Monferrato. Con l’autore ne discutono: Elio Carmi e Francesca Olga Hasbani.