Emilia Romagna

“I giudici influenzati dai media”: annullata la condanna a uno dei pusher di Pantani

Dopo sette anni la decisione della della Cassazione riapre in qualche modo le ultime ore di vita a Rimini del grande campione

A oltre 7 anni dalla morte per overdose del ciclista Marco Pantani, secondo la Corte di Cassazione i magistrati dei precedenti processi chiamati a giudicare uno degli imputati furono influenzati dal sensazionalismo dei media sulla vicenda. Così, senza rinvio, la Suprema Corte ha annullato la condanna al leccese Fabio Carlino, accusato e ritenuto colpevole in primo e secondo grado di aver favorito la fornitura di cocaina troppo pura a Marco Pantani, stroncato il 14 febbraio 2004 a 34 anni nel residence “Le rose” di Rimini.

In base all’accusa, l’uomo era stato rinviato a giudizio perché avrebbe offerto ospitalità ad altre due persone coinvolte nella vicenda. Il primo era Fabio Miradosa, colui che le cronache avevano ribattezzato come il “fornitore” e che aveva già patteggiato 4 anni e 10 mesi. Il secondo era Ciro Veneruso, il “corriere”, che si era visto comminare una pena a 3 anni e 10 mesi.

Il pronunciamento assolutorio della IV sezione penale della Corte di Cassazione appena emesso accoglie dunque le richieste del sostituto procuratore generale Oscar Cedrangolo, secondo il quale “la spettacolarizzazione data dai media alla morte di Pantani [ha] spinto i giudici di merito ad una eccessiva attribuzione di responsabilità”. Dunque il fatto contestato a Carlino “non costituisce reato”. Nei due precedenti processi, invece, l’uomo aveva subito una condanna a 4 anni e 6 mesi di carcere a cui si dovevano aggiungere 19 mila euro di multa e un risarcimento ai congiunti del ciclismo di 300 mila euro.

Di certo, in questa vicenda, rimane la morte dello sportivo, nato a Cesenatico il 13 gennaio 1970. I referti degli esami necroscopici avevano evidenziato edemi ai polmoni e al cervello come conseguenza di un’overdose di cocaina che Pantani avrebbe acquistato una volta raggiunta la città romagnola, dove era arrivato 5 giorni prima partendo da Milano a bordo di un taxi. Devastato ormai dalla depressione e dalla tossicodipendenza, il campione di ciclismo aveva scelto una struttura poco appariscente per rifugiarsi.

Nel suo ultimo giorno di vita, poi, lo sportivo aveva chiamato due volte dalla sua camera la reception chiedendo che fossero avvertiti i carabinieri perché, disse, ci sarebbe stato qualcuno che lo avrebbe infastidito. Solo alla seconda telefonata un addetto salì e bussò per andarsene subito dopo che da dietro la porta, rimasta chiusa, furono biascicate parole incomprensibili. Poche ore più tardi il ritrovamento del corpo in una stanza devastata, per quanto il cadavere non riportasse escoriazioni. E accanto al volto c’era un rigurgito di mollica di pane e cocaina, avrebbero stabilito le indagini scientifiche.

Quello che accadde, secondo la famiglia di Marco Pantani, avrebbe lasciato aperta la porta all’ipotesi dell’omicidio, per quanto nel corso dell’inchiesta non fossero emersi elementi che confermassero questa pista. Più sicuro invece il fatto che il crollo psicologico del ciclista e la conseguente dipendenza da sostanze stupefacenti fossero da attribuire a quanto accadde a Madonna di Campiglio la mattina del 5 giugno 1999.

Al termine di controlli medici, Marco Pantani, saldamente in testa al Giro d’Italia a due tappe dalla conclusione, era stato escluso per via dei livelli di ematocrito nel sangue, secondo lo staff sanitario al 52%, 2 punti sopra il livello consentito. Il ciclista protestò ed esibì altri accertamenti svolti nelle ore successive, che davano riscontri differenti. Inoltre contestò le modalità delle verifiche sportive, avvenute in ritardo rispetto al solito e con provette non conservate in borse termiche.

Ma le affermazioni di Pantani e del suo team non valsero a nulla. Finito nel mirino della giustizia sportiva e di quella ordinaria, subì un pesante contraccolpo psicologico che raccontò varie volte a giornali e televisioni. Quell’anno fu fuori anche dal Tour de France e, per quanto avesse tentato di riprendere la carriera sportiva, che prima di quell’anno lo aveva portato a vincere tutto e a diventare un’icona dello sport tanto da essere ormai chiamato il “pirata” per i meriti agonistici e la bandana con cui correva, non era più riuscito a risollevarsi.

Chi lo aveva incontrato il giorno del suo ultimo compleanno, il 13 gennaio 2004, lo aveva descritto come una persona ormai avviata verso la fine. Poi, quella dose fatale, una quantità di droga sei volte superiore – un etto circa – a quella potenzialmente tollerata dal fisico di una persona, soprattutto di una debilitata. Dopo la morte circolarono diverse voci a proposito di quanto accaduto nel 1999 e nel 2004. Una di queste chiamava in causa Renato Vallanzasca, il boss della Comasina condannato all’ergastolo, che a proposito della tappa del Giro di Madonna di Campiglio del 1999 riportò parole di altri detenuti su un giro di scommesse clandestine in carcere. Giro che avrebbe voluto Pantani fuori dalla competizione. Ma in seguito non aggiunse alcuna ulteriore spiegazione alle sue parole.

La linea investigativa avviata dalla procura di Rimini fu quella del giro di spacciatori, alla ricerca di coloro che avessero venduto tutta quella droga troppo pura a Pantani. Ne erano seguite le condanne già raccontate. Per quanto riguarda una quarta persona accusata di aver avuto un ruolo della morte di Marco Pantani, in precedenza era già stata assolta Elena Korovina, l’accompagnatrice di nazionalità russa che frequentava il ciclista nell’ultimo periodo della sua vita.