Politica

La vendetta dell’etica

Forse fatichiamo a capirlo. Ma quel che sta accadendo è una grandiosa vendetta dell’etica sui suoi nemici. È la sua rivincita su chi l’aveva dileggiata in nome delle superiori ragioni dell’economia, della politica, del potere. Cacciata con superbia, ci ricade addosso travolgendoci. Il baratro economico è l’effetto di un collasso della fiducia. Ma la fiducia è una misura sintetica ed efficacissima di uno stato di salute e di una reputazione che, nel caso italiano, fanno drasticamente i conti con i fondamenti dell’etica pubblica. Basta dare storia e radici all’indebitamento contro il quale annaspiamo ormai impotenti. Non è forse, da sempre e ovunque, una primaria questione di etica pubblica l’atteggiamento dei cittadini verso il dovere di pagare le tasse?

E non È nel nostro caso l’evasione fiscale un indicatore diretto, solare, della cultura civica praticata, vezzeggiata, giustificata anche dall’alto in nome di un consenso drogato e anarcoide? Altrettanto è una fondamentale questione etico-istituzionale quella del senso di responsabilità e del rigore con cui si amministrano i soldi pubblici. Valori irrisi. Eppure paghiamo oggi esattamente il saccheggio degli anni di Tangentopoli. I cui protagonisti, con le loro ruberie, fecero schizzare verso vette mai raggiunte (e a quanto pare irreversibili) i livelli del debito. Oggi, trent’anni dopo, quelle scelte sciagurate che ai protagonisti consentirono vite principesche ricadono su chi allora non era ancora nato. Sappiano i nostri figli chi ringraziare, con buona pace dei nostalgici della Prima Repubblica.

Ma ha molto a che fare con l’etica anche la dissipazione delle ricchezze realizzata dalla Seconda Repubblica. Si pensi solo alla somma mostruosa (più di 60 miliardi) sottratta ogni anno alla collettività dalla corruzione, perseguita con leggi sempre più blande e anzi sdoganata con diffusi meccanismi di deresponsabilizzazione, come la trasformazione in una galassia di soggetti “di diritto privato” del sistema dell’economia pubblica. Le grandezze economiche che ci inchiodano e ci rendono inquieti sul nostro futuro sono insomma figlie legittime di un preciso sistema di regole morali. Di un modo di intendere compiti, ruoli e doveri quando si operi nelle e al servizio delle istituzioni. Di una specifica qualità della solidarietà sociale. Di un senso dello Stato infermo. E anche della distruzione del circolo virtuoso delle democrazie, quello che stringe insieme consenso, potere e responsabilità.

Figlie della convivenza di un potere senza responsabilità (il capo del governo), di un potere senza consenso (i Lavitola ministri degli esteri o i Bisignani vicepresidenti del Consiglio), di un consenso senza potere (gli organi elettivi, al di là delle leggi elettorali). Abbiamo anche scoperto che l’etica privata ha un’autonomia del tutto relativa. Che i comportamenti privati di chi ha funzioni istituzionali tracimano a un certo punto, e necessariamente, nella sfera dei comportamenti degni di pubblico giudizio (altro che buco della serratura…). E concorrono a generare o distruggere fiducia. O pensiamo forse che i risolini imbarazzati di Sarkozy e della Merkel non esprimano una “sfiducia” che in loro, come in tutta l’opinione pubblica internazionale, si è sedimentata anche in virtù di un giudizio (radicale) su conclamati comportamenti “privati”?

L’etica, purtroppo, restituisce i torti subiti con gli interessi, non risparmiando nemmeno la Costituzione. Quando il cancelliere tedesco telefona al presidente della Repubblica per avere ragguagli e certezze sulla manovra economica del governo, di fatto è stata cambiata la geografia costituzionale dei poteri, che ci piaccia o no. Insomma, la cenerentola dei congressi politici, l’ospite a stento tollerato nel Palazzo, sta trionfando. Avevano pensato di mandarlo in esilio, ma non ci sono riusciti. Perché l’etica si può umanamente trasgredire. Ma non la si può calpestare (Tangentopoli) e tanto meno rovesciare (Seconda Repubblica). Ci avevano detto che la legalità era bella ma impediva lo sviluppo. Ora impariamo che l’illegalità ci ha portato a un passo dall’abisso.

Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2011