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“Dal Marocco allo Yemen<br>Ecco i costi delle Primavere arabe”

La cifra è contenuta in uno studio di Geopolicity, una società di consulenza strategica. Il rapporto, basato anche sui dati del Fondo monetario internazionale si presenta come una sorta di guida per aiutare la comunità internazionale a valutare la dimensione dell’aiuto economico da fornire ai paesi arabi che si sono avviati sulla strada della transizione democratica

Cinquantacinque miliardi di dollari. Tanto sarebbero costate le rivolte della Primavera araba alle economie della regione che va dal Marocco allo Yemen. La cifra è contenuta in uno studio di Geopolicity, una società di consulenza strategica con base negli Usa e negli Emirati arabi uniti. I paesi colpiti, ovviamente, sono Libia, Egitto, Tunisia e Siria.

Il rapporto, basato sui dati del Fondo monetario internazionale (Fmi) e sulle stime dei ricercatori di Geopolicity, si presenta come una sorta di guida per aiutare la comunità internazionale a valutare la dimensione dell’aiuto economico da fornire ai paesi arabi che si sono avviati sulla strada della transizione democratica. I ricercatori, infatti, non mancano di sottolineare come «l’appoggio promesso al G8 di Deauville del maggio 2011 non si è ancora materializzato». Le ragioni del ritardo di Stati Uniti ed Europa nel fornire sostegno economico ai paesi in transizione sono da ricercare in una serie di fattori, non ultima la crisi finanziaria che il mondo occidentale sta attraversando, a cui si sommano le spese per gli interventi militari in Afghanistan e in Iraq e soprattutto la mancanza di una «road map», sia a Washington che a Bruxelles e nelle altre capitali europee, per il futuro delle relazioni con la sponda sud del Mediterraneo.

Disaggregati per ciascun paese, i dati – che lo stesso rapporto considera comunque parziali data la fluidità del contesto – mostrano che la Libia ha perso oltre 14 miliardi di dollari (7,67 in diminuzione del pil e 6,5 in costi per le finanze pubbliche); la Siria, 27,3 miliardi (6,07 e 21,22 per ciascuna voce); l’Egitto 9,79 miliardi di dollari (4,27 e 5,52); la Tunisia 2,52 miliardi (2,03 e 0,49); il Bahrein 1,09 miliardi e lo Yemen poco meno di uno. Le cifre assolute, però, non dicono tutto. Lo Yemen, per esempio, ha perso il 77 per cento delle entrate dello Stato, da quando, a febbraio, è iniziata la rivolta contro il regime di Ali Abdullah Saleh, al potere da 33 anni, mentre la guerra in Libia ha fatto crollare le entrate pubbliche dell’84 per cento, mettendo a rischio servizi essenziali per i cittadini.

«I rischi di questa situazione sono chiari – si legge nell’introduzione al rapporto – Se i fattori di cambiamento di ciascun paese non vengono affrontati strategicamente e con un programma su scala regionale, concepito e guidato dagli stessi paesi arabi, il risultato della rivolta rimane sconosciuto ed è potenzialmente regressivo». Inoltre, «la comunità internazionale ha oggi bisogno di strumenti più intelligenti e su misura» per sostenere meccanismi in grado di rafforzare riforme locali sostenibili nel lungo periodo.

La posta in gioco, secondo i ricercatori di Geopolicity, è molto alta: «Se questi eventi fossero considerati solo una nota a piè di pagina della storia araba sarebbe una tragica occasione mancata – scrivono – L’opportunità per cambiamenti positivi non è mai stata così grande». «Il mondo arabo è a un bivio: adottare un atteggiamento regressivo, che sacrifica le riforme a favore di interessi particolari, oppure abbracciare una maggiore trasparenza, equità sociale e integrazione globale», aggiungono.

La sostanza del discorso è che senza istituzioni stabili e trasparenti, una società civile e politica in grado di creare un sistema democratico organico e senza la crescita di un sistema economico stabile, più equo e più includente, anche l’aiuto economico fornito dall’Ue, dagli Usa e dalle istituzioni di Bretton Woods (Fondo monetario e Banca mondiale) rischia di perdersi in progetti guidati da una ottica solo di breve periodo, che non incide sulle strutture dell’economia dei paesi coinvolti, a partire, per esempio, dalla dipendenza dalle entrate petrolifere o dalla fragilità dei sistemi agricoli e produttivi. Eliminare i dittatori, insomma, è solo il primo, indispensabile, passo verso una ricostruzione che per essere durevole, deve andare molto più in profondità.

La domanda implicita diventa allora: sarà l’occidente in grado di cogliere questa opportunità o ancora una volta si lascerà guidare da una percezione miope dei propri interessi? Una domanda difficile a cui per ora non c’è risposta.

di Joseph Zarlingo