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Dialoghi socratici: la democrazia in campo

Qualche anno fa mi invitò a cena in un drugstore vicino a casa sua, a Riberao Preto, il suo buen ritiro a un’ora di volo da San Paolo. E mi sbigottì con le sue pirotecniche abitudini etiliche. Per dire, riuscì a scolarsi quindici birre (15!) prima dell’antipasto. “E’ per stimolarmi l’appetito”, sogghignò divertito davanti alla mia Perrier. Ora, a 57 anni, col fegato inevitabilmente a pezzi, Brasileiro Sampaio de Sousa Vieira de Oliveira detto Socrates, il calciatore filosofo che formò il suo pensiero sui testi di Platone, Hobbes e Machiavelli, il fantasista del quale Pelé disse: “Giocava di spalle meglio di quanto la maggior parte dei suoi colleghi giocasse di fronte”, ha giurato di aver chiuso con l’alcol.

Per forza, si è preso un brutto spavento, ha rischiato di morire, si è fatto parecchi giorni in terapia intensiva per una gravissima emorragia gastrica causata dalla cirrosi epatica. Disavventura che non ha appassionato più di tanto i media italiani, giusto qualche breve, ricordi sparsi del suo celebre colpo di tacco, dell’esperienza nei Mondiali dell’82 (era tra i califfi di quel Brasile alieno, a parte portiere e centravanti, beffato da Pablito in stato di grazia) e dell’’86, del transito poco brillante nella Fiorentina di Passarella e Pecci (troppo lento, sentenziarono in tanti, al punto da ipotizzare che dentro i calzettoni infilasse libri piuttosto che parastinchi, “squadra spaccata – contrattaccò lui – soprattutto per questioni di corna”). Ma nessun accenno alla Democrazia Corinthiana, il modello di autogestione che Socrates impose tra l’’82 e l’84 nel suo club plurititolato in patria, la cui tifoseria, nei giorni scorsi, ha salutato con cori e striscioni la guarigione del suo antico leader. Strana dimenticanza, in un periodo nel quale nel calcio italiano volano gli stracci tra padroni e giocatori, con Tommasi a fare in piccolo, piccolissimo, il Socrates della situazione.

E invece val la pena ricordare che quella del Corinthians fu una grande rivoluzione in una delicatissima fase storica del Brasile, flagellato da tempo da una dittatura militare che cominciava a mostrare la corda. In pratica la ribellione dei giocatori contro i vertici della società, il profondo cambiamento dei rapporti tra proprietà e dipendenti, coincise con il radicale mutamento del quadro politico. All’abbattimento di quel regime, con le elezioni del novembre dell’82, contribuì in modo decisivo l’esempio di Socrates e compagni (tra cui l’ex granata Walter Casagrande), capaci di vincere i campionati con la parola “Democrazia” sfrontatamente esibita sulle maglie.

O’ Doutour (Socrates è laureato in medicina, a fine carriera aprì anche una clinica privata) stese nello spogliatoio le fondamenta di una efficacissima cellula socialista: si votava su tutto (e ogni voto, dal presidente al magazziniere, aveva identico valore): dal menù del giorno alle strategie di gioco e di mercato, persino in bus, durante le trasferte, si stabiliva per alzata di mano se fermarsi o meno per le necessità fisiologiche. Qualunque cosa diventava di interesse collettivo, compresi i contratti individuali, sui quali si ragionava valutando con attenzione le disponibilità economiche del club. Anche i ritiri prepartita erano sempre facoltativi. (“Meglio ci si sente meglio si gioca. E dove ci si sente meglio che a casa propria?”).

Certo, non tutti erano allineati. Leao, il portiere, non votò mai, si rifiutò di aderire alla linea comune, ma accettò sempre le volontà del gruppo. “La libertà è una cosa che genera responsabilità – ha sempre sostenuto Socrates – bisogna saper amministrare questi due aspetti. Il calcio è l’unica azienda nella quale il lavoratore è più importante del padrone. Il calciatore può essere osteggiato, limitato, ma alla fine è lui ad avere le carte migliori per cambiare lo stato delle cose. Questa certezza si cementò nello spogliatoio del Corinthians, radici che nessuno è più riuscito a estirpare. Ed è stato un processo che ha aiutato i brasiliani a sollevare la testa e a liberarsi dopo vent’anni dell’oppressore”.

Quella di Socrates era una squadra speciale, usava la testa prima dei piedi. Tutta gente dal cervello fino, i vari Wladimir, Biro Biro, Zenon, anche nel dopo calcio restarono protagonisti nei settori più diversi. Quel Corinthians vinse molto, ma quando cominciò a perdere anche i suoi equilibri democratici subirono un progressivo ridimensionamento. E la sua eredità mai più raccolta, a parte qualche sporadico, velleitario, focolaio di autogestione. “Un progetto del genere – garantisce il suo creatore – non sarebbe più possibile, e non solo in Brasile, perché il calcio è la cosa più antisociale che esista”.

Dialoghi di Socrates, fratello di Sofocles e Sostenes (“Mio padre quando scelse quei nomi doveva essere ubriaco, meno male che non ha fatto figlie…”), oggi alcolista pentito, un tempo sorta di mix mutandato di Lennon e Che Guevara che politicizzò il calcio come nessuno era mai riuscito a fare. Barricaderi italiani, fategli una telefonata, il vecchio Magrao sarà felice di indottrinarvi.