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Arabia Saudita, decapitata colf indonesiana condannata a morte

La tensione fra i due paesi è altissima. Le autorità di Ryadh hanno eseguito la condanna senza avvisare Giacarta che ha proibito ai suoi cittadini di andare a lavorare nel paese arabo. La donna era stata riconosciuta colpevole dell’omicidio del suo datore di lavoro

Dopo il caso di Dominique Strauss-Khan, la sorte di un’altra cameriera, anzi una colf, sta agitando la politica internazionale. In modo però decisamente più drammatico. Ruyati binti Sapubi, 54 anni, indonesiana, è stata decapitata sabato in Arabia Saudita. Era stata condannata a morte perché riconosciuta colpevole dell’omicidio del suo datore di lavoro, che, secondo gli avvocati difensori, la sottoponeva a pesanti e ripetute molestie sessuali.

La decapitazione è avvenuta senza che le autorità di Giacarta ne fossero informate ufficialmente e senza che fosse loro data possibilità di assistere la loro cittadina. Il governo indonesiano ha reagito duramente: prima ha emanato un decreto che proibisce temporaneamente ai suoi cittadini di andare a lavorare in Arabia Saudita e poi ha richiamato in patria l’ambasciatore a Ryadh. Il governo saudita ha presentato le proprie scuse per non aver comunicato la condanna e ha promesso di aprire negoziati bilaterali per migliorare la tutela dei lavoratori indonesiani migranti. I colloqui dovrebbero iniziare il primo agosto prossimo, ma la tensione tra i due paesi è altissima. L’Indonesia, primo paese musulmano del mondo per popolazione, ha in Arabia Saudita una numerosissima colonia di lavoratori, circa un milione e mezzo di persone, soprattutto donne che lavorano nelle case dei ricchi sauditi. Spesso la loro vita è un inferno: non hanno diritti e la tutela legale in caso di maltrattamenti è praticamente nulla. Ad aprile scorso c’è stato il caso di una donna saudita, assolta in appello dalla condanna avuta in primo grado per i maltrattamenti e le torture a cui aveva sottoposto la sua colf indonesiana. La sentenza di assoluzione è stata contestata in Indonesia con manifestazioni di piazza e proteste ufficiali.

Negli ultimi 20 anni, sono stati 303 i lavoratori indonesiani condannati a morte in Arabia Saudita e solo in 12 casi il governo di Giacarta è riuscito a intervenire per fermare il boia. “Non vogliamo più casi del genere – ha detto Dita Indah Sari la portavoce del ministero del Lavoro indonesiano – Durante la moratoria che abbiamo deciso ci sarà una speciale task force del ministero che vigilerà affinché non ci siano reclutamenti illegali di lavoratori indonesiani da parte delle agenzie saudite”. La moratoria durerà fino a quando i due paesi non avranno trovato un accordo, che tuttavia non sarà facile da raggiungere. In Arabia Saudita i lavoratori stranieri, alcuni milioni, non hanno praticamente diritti. Alle dure condizioni di lavoro, per le donne molto spesso si aggiungono le molestie sessuali, molto diffuse in una società repressa e repressiva come quella saudita. Capita anche che quando scadono i contratti i datori di lavoro si rifiutano di pagare i biglietti aerei per rimpatriare le lavoratrici che rimangono quindi “parcheggiate” in centri di detenzione per migranti.

Sarebbe stato proprio l’ennesimo abuso subito a spingere Ruyati binti Sapubi ad attaccare con un bastone il suo datore di lavoro, che le aveva negato il permesso di rientrare in Indonesia. La donna lo ha colpito a morte e ha ammesso davanti ai giudici sauditi la sua colpa. Né la confessione, né le violenze subite hanno però indotto i giudici a una sentenza più clemente, come l’espulsione dal Paese con l’accordo di scontare la pena in Indonesia. Sarà su questo che ora i due governi dovranno trovare un punto d’incontro, perché nessuno dei due paesi può permettersi di interrompere il flusso di lavoratori in modo permanente. L’Arabia Saudita ha bisogno di lavoratori – non solo di colf – e l’Indonesia delle rimesse che i migranti mandano in patria. Secondo i dati del rapporto sull’emigrazione indonesiana pubblicato lo scorso anno dall’International Organization for Migration, l’Indonesia è al secondo posto per numero di emigranti tra i paesi del sud est asiatico. Nel 2009 le rimesse degli emigranti hanno toccato i 6,6 miliardi di dollari, pari a un terzo del totale degli investimenti diretti esteri nel paese e più di quanto l’Indonesia non riceva in aiuti internazionali. Un terzo di questa cifra, 2,2 miliardi di dollari, arriva appunto dai lavoratori emigrati in Arabia Saudita, dalle centinaia di migliaia di colleghe di Ruyati binti Sapubi.

Joseph Zarlingo – Lettera 22