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Siria, ancora scontri dopo il week end <br> di sangue. E gli Usa pensano a nuove sanzioni

Secondo il Washington Post la tolleranza dei paesi occidentali verso la repressione del regime di Bashar Assad sta per finire. Per l'ong International Crisis Group Damasco è oltre il punto di non ritorno, ma un intervento "in stile libico" per il momento è da escludere

Un altro giorno di scontri e proteste in Siria, dopo l’ennesimo fine settimana di sangue. Dall’alba di lunedì carri armati sono stati segnalati nei quartieri della periferia della capitale Damasco, secondo quanto dicono le organizzazioni per la difesa dei diritti umani che stanno diventando la principale voce dei movimenti contrari al regime del presidente Bashar Assad. Le truppe sarebbero in moto soprattutto attorno al quartiere di Muhadamiya, dove sono state tagliate le linee elettriche e telefoniche e da dove, secondo testimoni oculari, si alzano colonne di fumo nero.

L’esercito siriano, intanto, continua a tenere sotto assedio le altre città epicentro delle proteste, in particolare Homs, Deraa, nel sud del paese, e Baniyas, sulla costa. Il bilancio delle vittime, secondo i gruppi dell’opposizione, continua a salire, con almeno 800 morti dall’inizio delle manifestazioni due mesi fa, e alcune migliaia di persone arrestate dai servizi di sicurezza nel tentativo, finora fallito, di placare le proteste.

La tv di stato siriana, peraltro, ha accusato un non meglio precisato “gruppo terroristico esterno” dell’attacco a un autobus carico di lavoratori siriani di ritorno dal Libano. L’autobus è caduto in un’imboscata nei pressi di Homs e dieci persone, tutte civili, sono state uccise. L’opposizione contesta la versione ufficiale e accusa indirettamente il governo, che mantiene una fortissima presenza militare a Homs, terza città del paese, di alimentare la strategia della tensione per giustificare il pugno di ferro usato contro i manifestanti.

La decisione del governo Assad di non lasciare spazio a trattative o concessioni con i manifestanti, scrive oggi in un editoriale il quotidiano statunitense Washington Post, ha ormai ridotto all’osso la possibilità per la comunità internazionale di lasciare al governo una via d’uscita senza intervenire. L’unica garanzia che ha finora tenuto in piedi il governo siriano, secondo il Post, è il fatto che la Siria per la sua posizione di chiave di volta del Medio Oriente e più vicino alleato dell’Iran, è un pezzo importante degli equilibri regionali, non ultimo per il rapporto strettissimo con il Libano.

Per questo, secondo il quotidiano Usa, la comunità internazionale ha concesso ad Assad molto più tempo (e più tolleranza) di quanto non abbia avuto Gheddafi, ma il tempo e la tolleranza stanno finendo. Il riferimento è al nuovo round di sanzioni internazionali che la Casa Bianca sta studiando per estendere quelle, peraltro molto blande, in vigore già da alcune settimane. Stavolta il congelamento di beni e la proibizione a viaggiare arriverebbe alla cerchia più vicina al presidente Assad, che però dovrebbe personalmente ancora rimanere indenne dalla pressione diretta. La speranza ultima, sempre più debole, è che Assad torni a essere quello che aveva promesso di essere all’inizio della sua presidenza, nel 2000, quando aveva lasciato intendere che avrebbe aperto il paese alle istanze democratiche che in questi giorni spingono migliaia di siriani a sfidare polizia ed esercito.

Secondo un rapporto dell’autorevole ong International Crisis Group, però, il regime siriano è già oltre “il punto di non ritorno”. “Scegliendo di qualificare ogni forma di protesta come sedizione e di affrontarle con una crescente violenza – scrive l’Icg – il regime siriano ha chiuso la porta a ogni possibile onorevole uscita da una crisi politica che diventa sempre più profonda”. Secondo l’Icg, il regime ha scelto di dipingere le proteste come frutto di un complotto internazionale che tiene assieme “gli Usa, Israele, i nemici della Siria in Libano, l’Arabia Saudita e più di recente anche i gruppi jihadisti”. Un’immagine errata, aggiunge l’Icg, che scrive: “Nonostante non si possa del tutto escludere l’intervento di gruppi esterni, il cuore delle proteste è un movimento spontaneo e popolare, alimentato più dagli atti del regime che da presunte interferenze straniere”.

L’analisi dell’Icg si spinge a rendere esplicite alcune delle domande che circolano tra i governi occidentali: il governo controlla ancora, ed efficacemente, i servizi di sicurezza e l’esercito? Assad riceve davvero rapporti credibili sulla situazione nel paese? Le domande sono legittime perché già in passato gli apparati di sicurezza siriani e l’esercito sono stati attraversati da tensioni interne e scontri di potere che ne hanno minato la credibilità. Fino al punto che, oggi, se anche la repressione avesse successo, il solo possibile futuro per il regime sarebbe uno stato dominato dagli apparati di sicurezza. Non certo una soluzione di lungo periodo.

Di fronte a questa situazione, secondo l’Icg, però, un intervento internazionale in “stile libico” sarebbe fuori discussioni perché sarebbe usato dal regime per rafforzare la sua posizione e perché i primi a essere travolti da una ulteriore ondata di combattimenti sarebbero i vicini più fragili: Libano, Giordania e Iraq. Le sanzioni internazionali e un appoggio politico alle proteste sembrano al momento l’unica strada percorribile, a meno di non voler accelerare un collasso inevitabile, ma pieno di rischi per gli stessi siriani.

di Joseph Zarlingo – Lettera 22