Cronaca

Le arance di Mangano <br/> e i messaggi dei boss alla Fininvest

I rapporti tra gli imprenditori delle cooperative e Vittorio Mangano. L'ordine di Brusca al'ex fattore di Arcore di riprendere i contatti con il Cavaliere. Una storia milanese quella di Natale Sartori e Antonio Currò, messinesi, amici di Dell'Utri. Una storia a margine della nascita di Forza Italia

Alla fine non è rimasto quasi niente: solo una condanna per corruzione e un giro milionario di fatture false. Le accuse di mafia sono cadute. Quelle per traffico di droga pure. Del presunto favoreggiamento al genero di Vittorio Mangano, Enrico Di Grusa, latitante a Milano negli anni Novanta, poi, è meglio non parlare. In cassazione è evaporato anche quello. Eppure la storia delle grandi cooperative di pulizie e servizi gestite a Milano dai messinesi Natale Sartori e Antonino Currò, due buoni amici dell’ex fattore di Arcore, è centrale per capire che cosa è successo negli anni delle stragi. A sentire il pentito Giovanni Brusca, infatti, un pezzo della trattativa tra Stato e mafia (la seconda, da non confondere con la prima condotta dall’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino), è passata proprio attraverso quegli uffici dove, tra i quasi duemila dipendenti, lavorano pure due delle tre figlie di Mangano.

Brusca ne parla più di dieci anni fa. Racconta di aver convocato Mangano nel settembre del 1993 e di avergli chiesto di prendere contatto con Silvio Berlusconi. La prima trattativa è fallita: il 41 bis (il carcere duro) non è stato revocato, la pressione dello Stato su Cosa Nostra non si è allentata e, quello che è peggio, Totò Riina è in galera da 9 mesi. Discutere con i carabinieri come aveva fatto Ciancimino, non è insomma servito a niente. Così persino Luchino Bagarella, il cognato di Riina, quando gli si chiede come vanno le cose, allarga le braccia e dice: “Siamo in mezzo al mare”. Certo né lui, né Brusca sanno nulla dei legami politici che Riina aveva coltivato prima della sua cattura. L’altro corleonese, Bernardo Provenzano, che di rapporti ad alto livello ne ha molti, sembra poi sparito.

I fratelli Graviano, i boss del Brancaccio che per tutta l’estate avevano messo a ferro e fuoco l’Italia, sono latitanti al nord. E se anche hanno qualche filo per le mani, non lo fanno sapere. Per questo Brusca, dopo aver letto su “L’espresso ” del 26 settembre ‘93 che Marcello Dell’Utri, per conto di Berlusconi, sta creando un partito, incontra Mangano: sul settimanale è riportata la storia dei suo antico legame con il braccio destro del Cavaliere. Una storia che lui non conosce, ma che adesso può essere importante.

L’ex fattore di Arcore prende appunti su un foglietto: deve dire a Berlusconi che “la sinistra (intesa come la sinistra Dc ndr) sapeva”, cioè era al corrente di tutti i retroscena delle bombe visto che tra Stato e mafia c’era stata una trattativa. Poi va a Milano e in novembre chiede un appuntamento con Dell’Utri (risulta da delle agende sequestrate al senatore azzurro). A far da tramite con l’ideatore di Forza Italia, spiega però il pentito, sono “dei suoi amici, dei suoi parenti, che avevano a che fare con una ditta di pulizie”. Attraverso di loro, secondo Brusca, vengono inviati messaggi alla Fininvest e, forse, per tutto il ‘94 giungono anche le risposte.

Quando invece era Mangano a muoversi, gli imprenditori telefonavano al gruppo del Biscione e dicevano: “Sono arrivate le arance ”. Brusca però non sa chi siano esattamente questi amici dell’ex fattore. A scoprirlo, grazie anche un nuovo pentito, saranno gli investigatori. Le indagini della Dia (Direzione investigativa antimafia) svelano come Dell’Utri ancora nel 1998 sia in contatto con Sartori, mentre l’analisi sui tabulati telefonici delle cooperative del super esperto informatico Gioacchino Genchi, dimostrano che i legami sono molto antichi. Dell’Utri ha sulle sue agende un numero dell’imprenditore di Messina che risale a prima del 1990, e certamente, proprio come raccontato da Brusca, nel ’94 riceve a casa una sua telefonata. È un bel riscontro anche se non basta ancora per chiudere il cerchio.

Nessuno infatti può discutere i legami tra i vertici delle cooperative e la famiglia Mangano. Quando Vittorio viene arrestato, nel ’95, Sartori si precipita a Palermo; in altri casi le indagini hanno evidenziato passaggi di denaro e, persino, festività trascorse in famiglia tutti assieme. Il problema è che le cooperative per Publitalia per le reti televisive del Cavaliere ci lavorano: le pulizie negli uffici le fanno loro. E così, dal punto di vista processuale, il fatto che Sartori dia un impiego pure alle figlie del boss e si sia ritrovato a difendersi dalle accuse di aver favorito la latitanza di suo genero, resta una coincidenza. A Milano le dichiarazioni del pentito Vincenzo La Piana non bastano per ottenere la condanna di Sartori e del suo socio Currò per mafia. E anche se La Piana parla di un traffico di cocaina che, a metà anni Novanta, doveva essere finanziato dal senatore azzurro, la storia a poco a poco si scolora. Nei faldoni restano a prender polvere pure le informative che descrivono Sartori come un uomo legato persino al boss-imprenditore di Bagheria, Michelangelo Alfano e alla mafia di Messina. In aula, invece, l’avvocato di Sartori esulta. “Questa è una vittoria anche per Dell’Utri”, dice. Il legale è un onorevole. Si chiama Gaetano Pecorella e di solito assiste Berlusconi. Ma anche questa è solo una coincidenza.