Emilia Romagna

A partita iniziata non si pass

In cronaca locale si parla di giocatori del Bologna con finti pass per disabili. Tutto da provare, ma mentre Di Vaio e co. vanno in Procura a spiegare le loro ragioni, io penso al mio Pass Residenti Zona Stadio.

Faccio parte dei tanti che vivono accanto al Dall’Ara e non vanno allo stadio. Prima che uno strano gioco di rimbalzi acustici portasse la Curva Sud proprio dentro al cortile del mio condominio, non avevo nemmeno idea di quanto durasse una partita.

Certo, nel 1982 che avevo 9 anni e mi ero innamorata di una figurina di mio fratello, quella di Antonio Cabrini, non avrei mai sospettato di ritrovare il mio idolo, 20 anni dopo, al supermercato sotto casa.

Certo, a quel tempo, come tutti i bambini, mi sono divertita molto a urlare Campioni del mondo!!!!! correndo con una bandierina tricolore e a stare sveglia fino a tardi per festeggiare insieme a Pertini.

Poi il velo dell’indifferenza si è posato sui 12 tizi – anzi 11: ho chiesto conferma al non marito!- che rincorrono in mutande un pallone, fino a quando non sono venuta a vivere al Meloncello.

Solo in quel momento il gioco del calcio ha assunto per me un qualche interesse.

Tutto ha avuto inizio una domenica per caso. Ero andata a trovare un’amica a Casalecchio di Reno e – ignara dello tsunami automobilistico che è conseguenza di ogni partita – ho avuto l’ardire di tornare a casa proprio mentre i tifosi facevano capannello davanti ai cancelli di via Andrea Costa.

Non ho capito come, ma dopo due ore e un bel tour della zona est di Bologna con la macchina, ero di nuovo sotto casa della mia amica. Ho parcheggiato e sono rientrata a piedi.

Il peggio sarebbe arrivato ad avvenuta nascita di mia figlia.
Inverno.
Freddo.
Lei ha un anno esatto, compiuto frescofresco. La sono appena andata a prendere dai nonni che vivono fuori città. Stiamo rientrando per cena. E’ stata una giornata faticosa, piena di piccoli imprevisti e salti ad ostacoli.

Esco dall’Asse Attrezzato (zona Certosa) con la piccola che gorgheggia sul suo seggiolino. La rotonda è una enorme giostra di auto ferme e strombazzanti.

Non faccio in tempo a tirare dritto che mi ritrovo calamitata in mezzo a sciarpe rossoblu, motorini, persone che cercano di sfondare i cancelli del cimitero monumentale per parcheggiare, folle urlanti, folle paciose, bambini, uomini, donne, adulti, ragazzi, adolescenti, famiglie, coppie, compagnie di amici. Si muovono tutti nella stessa direzione.

La maledizione della partita si è nuovamente posata su di me e la mia prole.

La bambina inizialmente non fa una piega: mi guarda, fa le bolle con la saliva, ha appena imparato a fare le pernacchie e si diverte molto.
Poi, d’un tratto, accade che le viene fame.
In quindici secondi la fame diventa un baratro nello suo stomaco bonsai e quel baratro si tramuta subito in sirena dei pompieri. Il pianto di mia figlia si confonde coi canti dei primi tifosi entrati e io sono – letteralmente – rossoblu di rabbia.
Vedo la nostra casa in lontananza ma non riesco a raggiungerla. Sembra uno dei miei incubi, quando corro per prendere l’autobus e le gambe non si muovono.

Devo fare il giro lungo, come sempre.
Il mio Pass Residenti Zona Stadio non vale nulla di fronte all’ingorgo che si è creato.

Supplico i vigili di farci passare: “Ho una creatura affamata in auto!” provo a spiegare.
Ma che ci possono fare loro? E’ tutto bloccato.

Ecco, lo so, io sono di parte, ma il calcio proprio non fa per me.
Non capisco perché si debba mettere in crisi mezza città per un pallone. Non capisco – sono sincera – tutto questo clamore, tutto questo ragionare attorno a un solo sport, quasi come fosse l’unico al mondo.

Quando arriviamo sotto casa, io e la bambina urlante di fame, ovviamente non esiste speranza di parcheggio.
C’è un unico posto libero, quasi sotto il mio portone e per un attimo, un solo brevissimo attimo, ho la tentazione di piazzare la mia auto proprio lì.

Ma le strisce gialle mi ricordano che – probabilmente – lo ruberei a qualcuno che ne ha realmente bisogno.

E così, anche se per un lunghissimo istante vagheggio la possibilità di trasformarmi in una cittadina irrispettosa degli altri e della legge, poi il senso civico ha di nuovo la meglio, il demone mi abbandona.
Telefono al non marito e mi faccio portare una banana.

La bambina la mangia lì, in auto, mentre cerchiamo parcheggio in un altro quartiere.