Cronaca

Il coraggio di Ahmed

Questa testimonianza in diretta dal fronte di Bengasi vale più di mille discussioni e teorizzazioni. Eppure non servirà a nulla contro i pregiudizi ideologici. Il reportage è di un giovane giornalista e blogger impegnato anche per Peace reporter e per il Gruppo Abele di don Ciotti, Gabriele Del Grande, a cui si devono anche libri importanti in difesa dei migranti dei “barconi”.

Lascio a lui la parola, sperando (ma contandoci assai poco) che qualcuno provi a riflettere.

Viaggio a Benghazi, 23 marzo 2011

Sua moglie glielo aveva detto di parlargli. E anche i fratelli avevano insistito che lo bloccasse. Ma la verità è che Hasan non era mai stato così fiero di suo figlio Ahmed come quel giorno, quando gli disse che si univa al fronte per liberare il paese. E lo lasciò andare con la sua benedizione. Come padre, apprezzava quel coraggio e quella generosità. Partire a 24 anni come volontario, con una laurea in medicina e senza armi, per curare i feriti di guerra, in nome della libertà. Sono passati 13 giorni da quando se ne è andato. E oggi suo padre è la prima volta che viene a cercarlo al fronte. A cercarlo sì, perché nel frattempo Ahmed è finito nella lista dei dispersi. Dicono che sia stato fatto prigioniero a Ras Lanuf. Ma sono solo voci. La verità è là davanti. Tra il deserto e il mare, dove si leva alta nel cielo una colonna nera di fumo, alle porte di Ijdabiya, 160 km a sud di Benghazi. La strada davanti a noi è chiusa da una transenna. Entrano soltanto le macchine degli uomini armati. Siamo a Zuwaytina e la guerra è lì davanti, dopo la curva, saranno cinque chilometri. Dalla corsia opposta tornano dal fronte le auto dei rifornimenti e i civili in fuga da Ijdabiya. Una folla di curiosi sta a guardare. Mentre Hasan discreto, chiede in giro se qualcuno conosce suo figlio. Ma le notizie che arrivano fanno solo rabbrividire.

Nasser Idris ha appena parcheggiato il fuoristrada e si fa largo tra la gente a passi svelti. Cerca un giornalista. Ha bisogno di raccontare a qualcuno l’orrore. Un po’ per liberarsi di quelle immagini, un po’ per ricordarsi cos’erano la compassione e l’umanità. Erano in pattuglia, lui e Yousif Quwairi, un ragazzo di vent’anni, che mi conferma tutta la storia con lo sguardo perso nel vuoto, ancora sotto shock. Poco dopo il chilometro nove della strada per Ijdabiya, alla periferia della città, dove una quarantina di miliziani di Gheddafi, con cinque carri armati e un lanciamissili Grad, presidiano l’unica strada appostati su un’altura di sabbia e colpendo ogni veicolo in movimento, con l’appoggio dei cecchini sui palazzi intorno.

Nasser e Yousif all’inizio non hanno pensato che fosse una trappola. Hanno visto un fuoristrada Toyota con la portiera aperta e l’autoradio accesa. Quindi si sono avvicinati per vedere se ci fosse qualcuno. E dentro ci hanno trovato i corpi mutilati di due ragazzi dell’armata rivoluzionaria. La pancia aperta con una coltellata, la testa senza lo scalpo, le orecchie mozzate e le gambe amputate. Quando hanno fatto per caricarli sulla macchina per portarli alla camera mortuaria dell’ospedale, da un’altura gli hanno tirato addosso sette razzi. Fortunatamente li hanno mancati e sono riusciti a scappare tra i conati di vomito e le lacrime agli occhi. Sulla via del ritorno giurano di aver contato altri venti cadaveri. Tutti ragazzi della rivoluzione. Tutti uccisi dalle schegge dei missili delle milizie di Gheddafi, a giudicare da come sono martoriati i loro corpi senza vita.

Un altro volontario dell’armata rivoluzionaria, Suleiman Abderrahman, di Baida, conferma la notizia. Lui ieri pomeriggio di morti lungo la strada ne ha contati sei. Con l’aria che tira, i loro corpi resteranno abbandonati ai bordi della strada fino alla fine della battaglia. Di ambulanze al fronte oggi ce ne sono tre. Aspettano i feriti, ma da qui non si muovono, troppo pericoloso. Una ha il vetro della portiera rotto. È andato in frantumi con un colpo sparato sabato scorso nella battaglia di Benghazi, nel quartiere di Gar Younis. Stavano caricando un ferito e sono finiti nel mirino degli uomini di Gheddafi. Dentro c’era il dottor Bilal Fayturi, che adesso è ricoverato in terapia intensiva con un proiettile nel petto. L’autista di un altra ambulanza è scomparso sulla strada per Ijdabiya sette giorni fa, e un terzo è in una cella frigorifera dell’ospedale Jala con gli occhi cavati dalla faccia dopo che l’anno ucciso sparando sulla sua ambulanza al fronte di Ijdabiya.

E proprio da Ijdabiya si rincorrono da giorni le voci di un massacro. Siamo a dieci chilometri dai quartieri orientali, ma anche da qui è difficile verificare. Chiediamo ai pochi civili che riescono a scappare dalla periferia sud della città, tagliando dal deserto. Ma hanno poche informazioni, perché sono rimasti chiusi in casa per giorni, terrorizzati dai cecchini. Ci confermano solo che la città è da sei giorni senza acqua, elettricità e telefono. E che i due quartieri di Atlas e 7 Ottobre sono stati rasi al suolo dai bombardamenti a tappeto effettuati dai lanciamissili Grad. Hanno colpito tutto. Case e moschee. Ma i soccorsi non riescono a entrare. L’ingresso in città dalla porta orientale e da quella occidentale è controllato dai cecchini di Gheddafi. Sparano a chiunque si muova, ambulanze comprese. Insomma nessuno in questo momento è in grado di sapere quanti civili siano rimasti intrappolati nelle case e quanti invece siano riusciti a scappare prima.

L’esodo è iniziato martedì della settimana scorsa con i primi bombardamenti dell’aviazione di Gheddafi sulla città. E non si è mai fermato. Anche oggi, mentre parliamo, vediamo spuntare dalla curva un camion carico di donne e bambini. Cappotti neri, veli colorati e mani piccole levate al cielo con le due dita aperte a V in segno di vittoria. Suonano il clacson, riparano a Sultan, 30 km più a nord, dai parenti. Li seguono altre macchine con le valigie sul tetto. Ma il dubbio atroce è che non siano tutti. E il dubbio diventa certezza non appena da Ijdabiya arriva Hisham. Un ragazzo sulla trentina, in preda a una crisi di nervi, che gira tra la folla continuando a ripetere come un matto che dentro ci sono ancora molte famiglie ma che non hanno macchine su cui viaggiare. Detto fatto, alcuni volontari si prendono il rischio, girano la chiave e accendono i motori.

Sono i nuovi ragazzi della Libia che verrà. Quelli che non hanno più paura. Gli stessi che sul fare del tramonto, quando rientriamo a Benghazi, marciano pacificamente sventolando la vecchia bandiera libica dell’indipendenza, quella francese dei cacciabombardieri, e quella del Qatar di Al Jazeera. E i loro slogan rimbombano tra i palazzi davanti al mare: “Dam ashuhada ma yamshish shebab!”, che in italiano vuol dire: “Ragazzi, il sangue dei martiri non se ne andrà!”. Per il colonnello Gheddafi suona quasi come un avvertimento. Nonostante le stragi, il morale della resistenza è ancora alto.

A questi ragazzi il coraggio non manca. E ce ne vuole per continuare a resistere. E’ per questo che il figlio di Hasan, Ahmed, Nasser, Yousif, Suleiman, Bilal, Hisham, meritano tutta la solidarietà della nostra generazione che vive quieta sulla riva nord di questo stesso mare. Pensando a loro e pensando alle decine di morti che ho visto in questi giorni negli ospedali di Benghazi, mi chiedo se davvero valga la pena perdersi nel dibattito guerra sì guerra no, quando la guerra c’è già. Ma davvero non ce ne rendiamo conto? Va avanti dal 17 febbraio. Ed è una guerra civile. Di un dittatore corteggiato per anni dai nostri governi, che usa mercenari stranieri e artiglieria pesante per uccidere chi chiede la fine del regime. I morti sono già almeno un migliaio, quasi tutti ragazzi che hanno preso le armi per difendere le proprie città dall’armata di Gheddafi.

Ma in Italia continuiamo a leggere i fatti come se fosse una guerra tra clan, un complotto islamista o un progetto della Cia. Anche questo si chiama razzismo. Ed è l’incapacità di riconoscere ai popoli della riva sud la capacità di lottare per la libertà. Lo ripeto: qui la guerra c’è già. Ed è una guerra di liberazione. Presente i partigiani e Bella ciao? Secondo me si tratta semplicemente di decidere da che parte stare. Se con la dittatura o con il popolo libico. E poi di decidere come sostenere la parte che si è scelta. Con le manifestazioni pacifiche? Sono il primo a sostenerle, ma facciamole seriamente. Perché qui intanto ogni giorno c’è gente che muore sotto il fuoco di Gheddafi. Un uomo che deve finire in galera. Ma come fanno alcuni di voi a sostenere che il suo sia ancora un potere legittimo perché una parte del popolo lo appoggia? Anche Hitler e Stalin avevano i loro sostenitori… E di nuovo il razzismo: scusate ma in Libia non valgono lo stato di diritto e il codice penale? Il mandante di mille omicidi nell’ultimo mese può essere assolto in nome di qualche ragione politica?

di Gabriele Del Grande

Tratto da MicroMega