Saturno

L’orecchio tagliato di Garibaldi

Garibaldi, Cavour e il Risorgimentodi Alberto Mario Banti*

Beh, se ne sentono di stramberie intorno al Risorgimento e all’Unità. Eccone una: a Garibaldi hanno tagliato un orecchio (o un lobo di un orecchio) perché si è macchiato di un terribile reato (furto di cavalli, stupro: le versioni variano). E su che si baserebbe questa affermazione? Non è chiaro. Forse qualcuno se l’è ricavata da un qualche pamphlet ottocentesco scritto da un detrattore del condottiero. Oppure qualcun altro ha sentito il bisogno irrefrenabile di partorire un paralogismo del tipo: se ha un orecchio tagliato sarà un mascalzone. Non male. Ma ci fosse mai qualcuno che si preoccupa di esibire una qualche fonte certa, un qualche documento sensato che possa provare il passato criminale di Garibaldi. Niente. E il bello è che la rete è soffocata da blog che ospitano innumerevoli interventi di persone che danno credito ad affermazioni di questo tipo senza batter ciglio. Che, se ci pensate, è ben curioso: in fondo in un paese come il nostro, dove le questioni giudiziarie sono sempre all’ordine del giorno, ormai dovrebbe esser chiaro a tutti che una prova d’accusa deve esser certa al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma evidentemente quando si parla di storia si ritiene che non ci sia bisogno di esibire prove certe.

Dopo c’è anche chi si inventa alate mitologie. I padani discendono da Alberto da Giussano, dice uno. No, Alberto da Giussano è italiano, dice un altro. Macché, i padani discendono dai celti; e allora gli italiani discendono da Scipione l’Africano. E via con le panzane. Perché, con tutto il rispetto delle autorevoli voci che in qualche caso le hanno pronunciate, quelle son proprio panzane. Che nessuno storico serio al mondo potrebbe avvalorare, per il semplice e buon motivo che non c’è la minima evidenza documentaria che possa dar sostegno a nessuna di quelle affermazioni. Anche qui, i blog sono posti istruttivi. Sapendo cercare si trovano spazi web in cui una quantità di persone proclama senza dubbio alcuno che nelle «nostre» vene scorre «sangue italiano»; o che la grandezza di Roma deve renderci orgogliosi di essere italiani; o che nei «popoli padani» si intravede l’odierna espressione della millenaria cultura celtica. Su che base si possono fare affermazioni simili? Boh. Solo che quando le hai lanciate in qualche circuito mediatico sembrano valanghe che non si fermano più.

Insomma, quando si fa un uso pubblico della storia bisognerebbe avere la decenza di ricordarsi che esiste una disciplina storiografica che insegna come si può sensatamente parlare del passato. Non è nemmeno da dire che la pratica storiografica si basi su regole particolarmente astruse. Anzi, sono molto semplici. Uno storico deve fondare la sua ricostruzione su documenti di cui si è accertata l’attendibilità. Meglio se i documenti sono molteplici e convergenti, naturalmente. Inoltre uno storico – come ci ha insegnato molti anni fa Marc Bloch nella sua bellissima Apologia della storia – deve trattenersi dall’emettere giudizi di valore. E cioè uno storico non deve spiegarci se Robespierre o Garibaldi sono stati dei mascalzoni, ma deve descrivere cosa hanno fatto e perché l’hanno fatto. E, diciamo la verità, di storici e storiche in gamba, in grado di ricostruire con seria persuasività il passato, ce ne sono molti. Non che siano tutti perfetti; nessuno scienziato lo è. Né che non facciano mai errori; naturalmente non è così. Ma hanno un metodo scientifico da seguire, e quasi sempre cercano di seguirlo con rigore.

Ma la società dei media ha altre regole. Tempo fa, facendo zapping, mi sono trovato, incantato, a seguire una puntata di una trasmissione televisiva in cui un giornalista intervistava un romanziere che aveva appena scritto un romanzo ambientato nel Risorgimento italiano (un romanzo, si badi bene, non un libro di storia: fiction, non ricostruzione scientifica). Quella parte di intervista non verteva sulle tecniche della narrazione, come sarebbe stato corretto, ma sulla storia del Risorgimento (un po’ come se qualcuno intervistasse Dan Brown non sulle sue fantasie complottistiche, ma sui metodi per uno studio proficuo delle opere di Leonardo). Nel corso dell’intervista il giornalista, dopo un po’ di domande su fatti e aspetti del Risorgimento, concludeva dicendo (grosso modo): «Ma poi lei non crederà mica che i libri di storia ci dicano tutta la verità?»; al che il romanziere assentiva con aria un po’ spaesata; e l’altro rincarava: «perché c’è ben altro dietro…». E che cosa dovrebbe esserci? Il Grande Complotto di generazioni e generazioni di storici – non importa se di un paese o di un altro, di un orientamento intellettuale o di un altro, di un’inclinazione metodologica o di un’altra – tutti hanno tuttavia cooperato, e continueranno a cooperare, nel nascondere la verità? Conclusione obbligata alla quale arriva un comune spettatore che abbia seguito questa o altre consimili trasmissioni: «meglio lasciar perdere gli storici, tanto nessuno dice la verità…».

E lì si capisce com’è che nell’uso pubblico della storia nessuno si preoccupa minimamente del rigore del metodo storico, e com’è che ciascuno sembra avere una sua verità da sbandierare, un complotto cui alludere, un presunto misfatto da condannare, sempre senza dover fare lo sforzo di provare alcunché, né di misurarsi, neanche per un minuto, con la migliore storiografia.

*Storico e docente all’Università di Pisa

Leggi anche:  Stupidario risorgimentale. Catalogo delle bufale sull’Unità

Saturno, Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2011