Mondo

Il dittatore che c’è in noi

Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo”. Queste le parole della filosofa Hannah Arendt nel descrivere La banalità del Male del genocida nazista Eichmann nel processo di Gerusalemme nel 1960, divenuto prototipo della inumana, quanto banale, appunto, efferatezza del folle progetto eugenetico del nazismo. Eichmann non era un pazzo o un demente. Eichmann era qualcuno che oggi definiremmo “normopatico”, semplicemente abitato da un dittatore.

Una riflessione questa della studiosa tedesca che continuava, per un’imperscrutabile catena associativa, a ronzarmi nella testa a seguito degli attualissimi fatti che riguardano il mondo arabo e la caduta, con effetto domino, di regimi a forte connotazione autoritaria, se non proprio dittatoriale. Perché, mi sono chiesto, questi piccoli e ridicoli uomini che opprimono (fino al genocidio) i loro popoli mi ricordano tanto tutti gli altri banali omuncoli dittatori della storia?

Ed allora, la mancanza di idee mi fa pensare non tanto ad una povertà culturale assoluta o peggio a una tara, quanto piuttosto al dominio in noi di poche, ma imponenti, cementate, idee che tendono ad espropriare le altre, e a diventare iconiche. Si pensi ad esempio ad ogni volta che siamo rapiti da paure (esplicite o sorde), oppure da un forte risentimento o rancore, e osserviamo come la nostra mente si focalizzi su una sola idea totalizzante e riduca, se non proprio faccia crollare, la nostra capacità di lettura della realtà. La mente incatenata da emozioni primarie negative o invasa da un surplus martellante di informazioni-rumore di fondo, si disorganizza in un batter d’occhio.

Ma oltre a ciò, la mancanza di idee si associa anche alla mancata evoluzione di quello che noi psicologi chiamiamo sviluppo morale. Lo sviluppo morale è semplicemente la modalità del pensiero e dell’agire umano nello stabilire e nel realizzare il bene e il male per sé e per gli altri. È stato studiato nei bambini e adolescenti dal noto psicologo Jean Piaget, e ha conosciuto sviluppi in altri autori successivi (Kohlberg, Bandura, Turiel, Gilligan, Hoffman, etc). Senza entrare nel dettaglio, ciò che è importante sapere è che il pensiero morale conosce una serie di fasi successive di evoluzione abbastanza riconoscibili che vanno da uno stadio elementare-arcaico della prima infanzia (obbedienza/conformismo a precetti estrinseci/timore/ricompensa), fino ad una modalità più intrinseca orientata a principi universali, al bene comune e in un assetto più dilemmatico, nell’adolescenza-età adulta. Ovviamente, per il successo di questo sviluppo è fondamentale il ruolo dell’ambiente educativo, dei valori dominanti sociali (attualmente il valore dominante sembra il denaro) e del tempo dedicato dai genitori a questi aspetti (ultimamente sempre più scarso).

E allora, l’insieme combinato del primo fattore (poche idee dominanti e ossessive) e del secondo fattore (il mancato sviluppo morale o regressione del pensiero morale) diventa una miscela esplosiva potenzialmente attiva in ciascuno noi che rende il nostro ragionamento estremamente semplice, schematico, automatico, manicheo, direi quasi farfugliante o blaterante.

Una volta aggredita la capacità del pensiero critico e la possibilità di un’articolazione dilemmatica e complessa della realtà, l’individuo è pronto per asservirsi alla dittatura. A quella interna innanzitutto, quella dei propri bisogni divenuti nel frattempo inderogabili, e di conseguenza a quella esterna rappresentata da punti di riferimento protettivi e immutabili.

Il dittatore a rigor di logica non esiste, è un fantoccio che ci vuol poco a far cadere, in fondo (e infatti cascano uno ad uno come birilli), è la proiezione di un popolo che lo investe di tale ruolo, è il distillato di tutte le singole menti massificate e rese inabili al giudizio e polarizzate su modalità di funzionamento ipersemplificato. Lo sapeva bene Edward Bernays, nipote “americano” di Freud, quando inventò nel 1928 la propaganda (da cui nasce la moderna pubblicità e l’uso manipolatorio dei media), del quale lo stesso Goebbels fu seguace. Oggi tra un sondaggio e l’altro, tra un reality e un talkshow, continuiamo a coccolare e nutrire in noi (e poi anche fuori di noi) un potenziale dittatore, mentalmente impoverito, pronto a incarnarsi e chiederci il conto.

La condizione di ogni democrazia evoluta è dunque un’altrettanto evoluta coscienza critica (e benessere psicologico) dei suoi cittadini.