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Sudan, dopo il referendum sulla secessione probabile la nascita di uno Stato del sud

Il voto sulla divisione del paese era il punto più importante degli accordi di pace di Nairobi 2005. Dopo una guerra civile durata 22 anni, ora il nodo sarà come verranno divise le risorse naturali

Il 9 gennaio la popolazione del Sudan, il più grande paese africano, ha votato per uno dei referendum più importanti della storia del continente: la regione meridionale del paese deve diventare autonoma? Vogliamo o no la secessione? Dopo il termine delle votazioni risultava che in 10 seggi di Juba, la capitale del Sudan meridionale, circa il 96% dei quasi 30.000 votanti aveva votato sì, nonostante bastasse il 60% perché la decisione passasse. Il 3% circa dei voti era invece per l’unità e il resto dei voti era nullo.

Questo era solo un campione dei 3,2 milioni di votanti. Il risultato finale sarà annunciato il mese prossimo ma le proiezioni dicono che sia molto probabile che il 9 luglio il continente vedrà la nascita una nuova nazione. Il nome probabile? Il più semplice, Repubblica del Sudan Meridionale, ma sono stati proposti altri nomi, come il suggestivo Juwama, acronimo delle tre maggiori città Juba, Wau e Malakal.

Felice dei risultati parziali Salva Kir Mayardit, presidente della regione autonoma del Sudan meridionale e vice presidente della nazione, uomo famoso per il suo aplomb, che nella Messa di domenica scorsa ha sorriso e applaudito durante la parte musicale della celebrazione. Poi ha ringraziato Dio per la votazione pacifica e per il risultato. Felice anche il segretario generale dell’Onu Bank Ki-moon, che ha elogiato la popolazione “per il comportamento pacifico, la pazienza e la determinazione pacifica che hanno caratterizzato il voto della settimana scorsa”.

L’Unione Africana ha confermato l’appoggio al paese, indipendentemente dai risultati del referendum, che è l’atto più importante fra le clausole dell’accordo di pace di Nairobi del 2005 fra governo e ribelli del sud. Termina una guerra civile durata 22 anni, che ha visto oltre due milioni di morti, causata prima di tutto dall’incapacità dei politici di gestire il paese, diviso in base alla religione e l’etnia: il Sudan settentrionale, abitato da circa 22 milioni di musulmani arabi, e la regione autonoma del sud, abitata da circa 6 milioni di africani cristiani. Ma la responsabilità non è soltanto loro. La diversità e la divisione hanno radici lunghe: la colonizzazione, il processo di decolonizzazione e l’islamizzazione.

Alla fine del 1800 la Gran Bretagna e l’Egitto si sono spartiti la regione. L’hanno divisa in due, la regione araba e musulmana a nord e quella cristiana a sud, con l’obbligo di passaporto fra le due province, permessi speciali per i commerci e un’amministrazione completamente distinta. Era il Sudan Anglo-egiziano, retto da un governatore nominato dall’Egitto con il consenso inglese. I britannici si sono impegnati a costruire infrastrutture solo nel nord, fino a che nel 1943 hanno cominciato a preparare l’autogoverno del Sudan. Come è successo in quasi tutte le zone dell’Asia e dell’Africa che hanno visto il regime coloniale, con l’eccezione dell’India che si era preparata per decenni all’indipendenza dal British Raj, le potenze coloniali avevano badato bene a non assegnare posti chiave della politica e della burocrazia statale alla popolazione indigena, con il risultato che la decolonizzazione ha visto quasi ovunque una classe dirigente incapace di prendere il posto di quella dei colonizzatori.

Nel 1953 la Gran Bretagna decide di riconoscere al Sudan il diritto all’autodeterminazione. Quando nel 1956 viene proclamata l’indipendenza, già da un anno è scoppiata la prima guerra civile fra nord e sud. Da allora si sono avvicendati dei governi militari che hanno sempre privilegiato la regione settentrionale. La guerra dura fino al 1972. Tra il 1966 e il 1969 i governi non sono capaci di mettersi d’accordo su una costituzione permanente. Non sono neanche in grado di affrontare i problemi della lotta fra fazioni, della stagnazione economica e della dissidenza etnica. La politica è dominata dagli arabi, che considerano l’intero Sudan come uno stato arabo musulmano.

Il 1969 vede il colpo di stato del colonnello Gaafar Nimeiry, presidente fino al 1985, e nuove sanguinose lotte interne, con un intervallo di soli dieci anni di pace. Si affacciano gli interessi delle potenze straniere: specie l’Unione Sovietica, la Cina e, dalla metà degli anni Settanta, l’Egitto, riforniscono il paese di armi. Nel 1983 si verifica un fenomeno ben noto in tutti i paesi colonizzati: l’islamizzazione statale e amministrativa e l’imposizione della Shari’a. Fino alla seconda guerra civile, che ha visto oltre 4 milioni di abitanti del Sudan meridionale dislocati ed espatriati. Una vera tragedia umanitaria. Nel 2003 scoppia la rivolta della regione occidentale, il Darfur. Nel 2005 la guerra con il confinante Chad.

Nello stesso anno vengono però siglati gli accordi di pace di Nairobi, che stabiliscono che il nord rimanga arabo musulmano e il sud cristiano. Dopo sei anni il paese avrebbe deciso come governarsi tramite un referendum, quello che si è tenuto qualche giorno fa. Ma l’elemento chiave per gli equilibri regionali sono le risorse. Infatti il Sudan, come la Nigeria, è ricco di petrolio e di gas naturale. La maggior è parte nel sud, che è rurale e tuttora manca di infrastrutture per la lavorazione. Che sono al nord. E poi c’è la questione di Abyei, un’area di circa 10.000 Km2 al centro-sud del paese considerata da sempre un ponte fra nord e sud ma che, fertile e ricca di petrolio, viene reclamata da entrambe le parti.

Il vero nodo da sciogliere se sarà dichiarata l’indipendenza della Repubblica del Sudan Meridionale sarà: come verranno divise le risorse? E chi le gestirà?

L’Africa vede convergere gli interessi delle nuove potenze emergenti, specie l’India in Sudafrica e il Brasile in Angola e Mozambico. La Cina gioca un ruolo importante in Nigeria e in Sudan. La vecchia leadership e quella della futura Repubblica del Sudan Meridionale riusciranno a trovare un accordo per costruire delle relazioni che sappiano superare le secolari divergenze etniche e le diseguaglianze economiche e culturali, in modo da utilizzare al meglio le risorse per lo sviluppo interno? Questa sarà la sfida dei nuovi governi: usare insieme le strutture e le infrastrutture del nord e il petrolio e il gas del sud per debellare la povertà diffusa e far avanzare la popolazione rurale e analfabeta del meridione, e far rispettare gli accordi di pace per il Darfur del febbraio del 2010 per ridare dignità e diritti agli oltre cinque milioni di persone colpite dal terribile conflitto.

di Enrica Garzilli