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Sentenza Dell’Utri: Fininvest pagava il pizzo per i ripetitori in Sicilia

Ecco cosa hanno scritto i giudici della corte d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza che ha condannato Marcello Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Perché la sentenza passi in giudicato manca ancora il grado di giudizio in cassazione, dove verrà discussa solo per gli aspetti di legittimità e non di merito.

“I pagamenti in favore di cosa nostra da parte di Berlusconi proseguirono in quegli anni anche dopo l’allontanamento di Mangano da Arcore, come concordemente riferito da plurime fonti di prova, senza che quindi il ricorso ad un parallelo sistema di protezione ufficiale abbia indotto l’imprenditore a sospendere la corresponsione di denaro all’associazione mafiosa, nella consapevolezza che le molteplici attività economiche ed imprenditoriali che in quegli anni egli andava sviluppando in maniera sempre più estesa e diffusa anche in altre parti del territorio nazionale, ben difficilmente sarebbero state tutelabili dalla sola viglianza istituzionale o privata legale. La perpetuazione del rapporto con il sodalizio mafioso e la prosecuzione dei pagamenti per assicurarsi “protezione” fu dunque conseguenza di una scelta ben precisa da parte dell’imprenditore Berlusconi, sempre convinto, come già esposto, che in quegli anni difficili pagare chi lo minacciava o formulava richieste estorsive ed intimidazioni, piuttosto che denunciare, fosse il modo migliore di risolvere i problemi, conclusione confermata anche dalle risultanze della vicenda relativa ai versamenti di denaro effettuati dalla FININVEST per l’installazione in Sicilia dei ripetitori televisivi dai primi anni ’80. Che peraltro Silvio Berlusconi fosse solito in quell’epoca risolvere i suoi problemi utilizzando canali diversi da quelli istituzionali si ricava anche dai commenti su tale attentato del 1975 compiuti nel corso della conversazione intercorsa con Marcello Dell’Utri e Fedele Confalonieri undici anni dopo in occasione di un secondo attentato con un ordigno esplosivo compiuto la notte del 29 novembre 1986 lungo la recinzione della stessa villa di via Rovani.

Orbene, già a poche ore dall’attentato i tre, conversando tra loro (alle ore 00,12 del 29.11.86), non avevano avuto alcun dubbio circa la responsabilità di Vittorio Mangano, oltre che per il fatto appena accaduto, anche per il danneggiamento compiuto undici anni prima, ancorché non risulti che agli inquirenti all’epoca fosse stato offerto qualche elemento utile ad indirizzare proficuamente le indagini. E’ significativo che Silvio Berlusconi, nel commentare con un Marcello Dell’Utri oltremodo incredulo l’attentato subito nella notte ricollegandolo subito a quello perpetrato ai suoi danni undici anni prima, accomunate le due azioni criminali dalle medesime ragioni ispiratrici, non abbia avuto dubbi riguardo al fatto che si trattasse ancora una volta di una richiesta estorsiva proveniente da Vittorio Mangano sull’errato presupposto, indotto nel Berlusconi dagli inquirenti, del ritorno del mafioso in libertà (pag.1 e ss. vol.1 faldone 76: ”Allora, è Vittorio Mangano… che ha messo la bomba!… Eh, … da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza. E’ fuori … Sì, è fuori … Io purtroppo, stasera sono stato interrogato dai carabinieri, mi hanno portato loro … quello di Monza, no? … sul fatto di Vittorio Mangano … e io ho dovuto avvisare, insomma! Cioè, ho dovuto dire: “Sì, è vero, era là…”, gli ho raccontato la storia che loro sapevano benissimo, peraltro! … Loro c’erano arrivati prima di me! … Ecco … Io … io penso che sia lui!” – Va bè, io ritengo che sia così! Quindi adesso aspettiamo che poi … Ah, non c’è altra spiegazione! … E’ la stessa via Rovani come allora …” – “ e lui fuori di prigione” – ”quindi, il segnale di un’estorsione, ripensi … che a undici anni fa … No, quando poi mi hanno detto che era uscito da poco! …“).

Giova evidenziare come Berlusconi durante la telefonata, a riprova del mantenimento di rapporti tutt’affatto conflittuali con Vittorio Mangano, nel definire ironicamente l’attentato dinamitardo “un segnale acustico”, abbia espresso dispiacere per l’eventualità che il Mangano, sospettato dagli inquirenti di esserne l’autore, potesse essere persino arrestato (“Adesso mi spiace, però, se i Carabinieri … da questa roba qui … da un segnale acustico, gli fanno una limitazione della libertà personale a lui”: pag.19 vol.1 faldone 76). Ma se l’attentato del maggio 1975 era stato interpretato dal suo destinatario come un chiaro “segnale di un’estorsione” deve ritenersi che, nulla avendo denunciato al riguardo agli inquirenti, egli abbia trovato ancora una volta la soluzione più tranquillizzante attivando canali che già si erano rivelati efficaci agli inizi degli anni ’70 quando le minacce pervenute “cessarono così come iniziarono”.

Anche undici anni dopo, per l’attentato del 29 novembre 1986, subito recepito da Silvio Berlusconi come nuova richiesta estorsiva, neppure tanto eclatante nelle sue modalità (“con molto rispetto, perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata …Una cosa, un danno da duecentomila lire … Quindi, una cosa anche rispettosa ed affettuosa”), egli decise di interessare il suo fidato collaboratore Marcello Dell’Utri che, grazie ai canali già sperimentati e mantenuti con gli ambienti giusti, nel volgere di appena 24 ore sarebbe riuscito a dare una risposta in termini categorici riguardo alla matrice dell’azione criminosa escludendo soprattutto il sospettato coinvolgimento del Mangano. Ed infatti erano risultate fondate le perplessità espresse subito dal Dell’Utri in quella prima conversazione telefonica del 29 novembre 1986 con il suo datore di lavoro riguardo alla riconducibilità del fatto delittuoso al Mangano asseritamente rimesso in libertà (“Non mi dire! … E come si sa? … Ah, è fuori ? …Ah, non lo sapevo neanche! … Certo, sentiamo, sì. Comunque.. pare strano però, eh! Perché… sì, tu dici giustamente che luiSì, sì. Però, sentiamo, adesso”), perplessità che egli intendeva superare assumendo le necessarie informazioni con chi meglio di chiunque altro poteva sapere come stavano realmente i fatti. E così Marcello Dell’Utri aveva contattato immediatamente il solito Gaetano Cinà ed all’esito delle informazioni da questi acquisite con una straordinaria tempestività, già il giorno dopo la citata conversazione notturna (a distanza di appena due giorni dall’attentato) aveva potuto notiziare il suo datore di lavoro del fatto che il Mangano, contrariamente a quanto riferitogli dai Carabinieri, era ancora detenuto, e rassicurarlo che, a prescindere dalle restrizioni carcerarie cui era ancora sottoposto (che non gli avrebbero certo impedito di incaricare altri dell’azione delittuosa), il Mangano non aveva comunque alcun ruolo nella vicenda, ciò escludendo in termini assolutamente categorici anche sulla base di ulteriori fatti che il Dell’Utri si era riservato di comunicare a Silvio Berlusconi di presenza per non parlarne al telefono (telefonata 30.11.86 ore 14,01 in fald.76 vol. 1 pag.36: “Dunque, io stamattina ho parlato con quello lì … e poi ho visto Tanino, che è qui a Milano. Ed invece è da escludere quella ipotesi, perché è ancora dentro. Non è fuori. E Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere, ma proprio categoricamente. Comunque, poi ti parlerò perchédi persona. E quindi, non c’è proprio … guarda, veramente, nessuna, da stare tranquillissimi, eh!”). La cautela adottata su tali ulteriori notizie (“poi ti parlerò … perché … di persona“), subito recepita dal suo interlocutore (“perfetto, ho capito”), conferma come alla base degli accertamenti compiuti dall’imputato con risultati così rapidamente ed autorevolmente conseguiti (da stare tranquillissimi, eh!”), ci fossero stati contatti con ambienti poco leciti. Che peraltro la fonte delle autorevoli ed indiscusse informazioni, indicato dal Dell’Utri come “Tanino”, fosse proprio il coimputato Gaetano Cinà si ricava incontrovertibilmente dal fatto che pochi minuti dopo tale conversazione con Berlusconi lo stesso Dell’Utri aveva telefonato al fratello Alberto a Roma passandogli proprio quel “Tanino”, ovvero l’odierno imputato, il quale evidentemente in quel momento era in compagnia di Marcello Dell’Utri a Milano (“C’è Tanino che ti vuole parlare” – pag.16 vol.7 fald.76). Emerge allora l’ennesima conferma alla tesi dell’accusa che individua in Gaetano Cinà, amico e costante referente del Dell’Utri per oltre un ventennio, non già il mero titolare di una lavanderia a Palermo conosciuto in tempi remoti, bensì un soggetto in rapporti non solo parentali con esponenti di rilievo dell’associazione mafiosa i quali, opportunamente contattati, riescono in poche ore ad accertare e comunicare il perdurante stato di detenzione di un loro sodale, la di lui estraneità ad un’azione delittuosa commessa in un luogo distante oltre 2.000 km., individuando soprattutto la vera paternità del crimine, così da potere escludere in termini categorici che il Mangano vi fosse coinvolto e consentire quindi al Dell’Utri di comunicare perentoriamente a Silvio Berlusconi di stare “tranquillissimo” e non dare credito alle contrarie affermazioni ed ai sospetti degli inquirenti milanesi”.