Cronaca

La punizione

di Luigi Sabino

È una strana processione quella dei 5 uomini, tutti con ferite d’arma da taglio al volto, che qualche mese fa ha animato il pomeriggio dell’ospedale San Giovanni Bosco. Non sono arrivati insieme ma alla spicciolata, a intervalli irregolari. Forse, in questo modo, speravano di passare inosservati, senza attirare l’attenzione dei poliziotti del presidio. Agli agenti che li interrogano, riferiscono tutti la stessa storia ossia che sono stati vittima di un tentativo di rapina. Cambia solo l’oggetto del contendere. Una volta è uno scooter, l’atra un Rolex, un’altra ancora il giubbino firmato. C’era qualcuno con loro? No, erano assolutamente soli. Hanno riconosciuto gli aggressori? No, mai visti prima.

I poliziotti hanno capito subito che era una balla clamorosa, raccontata per nascondere altro ma sanno anche che possono farci poco. I “feriti” conoscono la legge. Sanno che un’accusa di favoreggiamento è più lieve di una di associazione per delinquere. Soprattutto, però, sanno che, mentendo, eviteranno che le forze dell’ordine mettano il naso nei loro affari e in quelli del clan. Sì perché i 5 non sono cittadini comuni, ma affiliati ai Di Lauro di Secondigliano e, come è facile intuire, non sono stati vittime di un tentativo di rapina ma di un’azione punitiva organizzata dagli “scissionisti”.

La loro colpa è stata quella di aver spacciato al di fuori della “riserva indiana” del Rione dei Fiori, l’unica piazza di droga lasciata ai Di Lauro dopo la faida. I poliziotti hanno scoperto tutto grazie alle informazioni raccolte per strada. Ma è un caso. Molto spesso questi episodi sono archiviati come semplici aggressioni perché se è la stessa vittima a mentire non si può certo sperare che sia il colpevole a raccontare la verità.

Succede spesso”- racconta sconsolato un ispettore con oltre 15 anni di servizio sulle spalle – “che i feriti arrivino in ospedale da soli o accompagnati da amici e parenti. Altre volte invece sono gli stessi aggressori a lasciarli al pronto soccorso. Presentano ferite d’arma da taglio o da pistole di piccolo calibro, in genere, agli arti inferiori. Tutti, poi, raccontano le stesse identiche storie. Sappiamo che sono bugie ma senza testimonianze che possiamo fare?”.

Gli fa eco anche un medico del Loreto Mare, altra struttura ospedaliera napoletana. “Qualche settimana fa”- racconta- “si è presentato un uomo con ferite alle gambe causategli, a suo dire, da una caduta dallo scooter. Quando gli ho fatto notare che mi sembrava improbabile che fosse caduto su un coltello si è allontanato dall’ospedale senza farsi medicare”.

È la nuova strategia dei clan per mantenere in riga affiliati e nemici. Pestaggi, accoltellamenti e gambizzazioni fanno parte di quella variegata serie di punizioni corporali inflitte a chi non rispetta il volere dei capi. Un’offesa a un esponente del clan ad esempio è punita con una “mazziata” mentre uno spacciatore che non versa tutti i soldi della “giornata” oppure che fa uso della droga destinata ai clienti quasi sicuramente sarà “sparato nelle gambe”.

Una legge del taglione che per assurdo è accettata e condivisa dalle stesse vittime come dimostra che si preferisce mentire piuttosto che denunciare. La spiegazione è da ricercarsi nel fatto che la punizione estingue la colpa, ma non necessariamente comporta la cacciata dal clan. Uno spacciatore “poco serio” può sempre sperare di tornare a gestire una piazza di droga una volta che si è rimesso in piedi oppure che gli sia assegnato un altro compito. Se invece dovesse decidere di parlare con “le guardie” allora il discorso cambia. Automaticamente, infatti, si trasformerebbe in un “infame”, colpa suprema per i tribunali della camorra che potrebbero chiederne conto anche ai suoi familiari. Meglio quindi accettare senza battere ciglio la punizione.

Alcuni clan, poi, hanno talmente affinato questo “modus operandi” da trasformarlo in un vero e proprio “ciaccare e medicare”. Diversi collaboratori di giustizia hanno dichiarato ad esempio che dopo aver eseguito la punizione, gli “incaricati” avevano anche il compito di trasportare la vittima in un luogo sicuro o presso la propria abitazione dove ad attenderla, insieme ai familiari, c’era già un medico con tutto l’occorrente per curare le ferite.

In questo modo, spiegano gli inquirenti, i clan alimentano quel concetto di “camorra giusta” tanto celebrato dalle canzoni neomelodiche o da film in cui chi sbaglia deve pagare. Ciò che si dimentica però è che tutto questo avviene in un mondo che per sua natura è illegale quindi, anche se a volte sembra strano, ingiusto.

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