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Il dilemma palestinese

Gli osservatori dello scenario mediorientale sono consapevoli che la regione è sul punto di entrare in una nuova fase, soprattutto per quello che oggi è chiamato “il dilemma palestinese”.

In fondo, notare i vari segni di una nuova, prossima guerra non è una impresa difficile. Una veloce occhiata allo scenario mediorientale rivela le ondate di sedizione, dal Bahrain al Kuwait, dall’Arabia Saudita al Libano, oltre al collasso della sicurezza e alla situazione politica in Iraq, in Afghanistan e addirittura anche in Yemen, perlopiù a causa della continua crescita di movimenti estremisti. A livello politico e diplomatico,si sta imponendo un nuovo scenario: le cosiddette vittorie della ”Fronte anti-americano” (Siria, Iran e Hezbollah), particolarmente dopo la guerra, nel luglio 2006, il declino del ruolo egiziano, e la necessità dell’Arabia Saudita di schierarsi dal gruppo dei moderati e avvicinarsi invece alla Siria. Tutto questo accompagnato dal crollo dell’immagine israeliana a livello internazionale sin dai giorni della guerra di Gaza fino all’assalto israeliano contro le navi pacifiste dirette a Gaza che hanno scatenato la Turchia, il nuovo protagonista mediorientale. La Turchia, infatti, il vecchio alleato israeliano, sembra aver deciso di collocare questa alleanze nell’archivio del passato.

Il 2 settembre scorso il mondo ha assistito al vertice di Washington. Un vertice anomalo di cui è importante notare la rapidità dell’organizzazione. A cui gli europei non hanno partecipato neanche formalmente.

Una analisi del ruolo dei partecipanti al vertice di Washington, faciliterà la comprensione della soluzione futura che ovviamente sarà solamente una.

In primis, Israele si trova ad affrontare una delle peggiori crisi diplomatiche degli ultimi decenni. L’immagine ridimensionata di Israele a livello internazionale, dopo tanti episodi come la guerra di Gaza e il rapporto di Goldstone, l’assassinio di Mabhoh a Dubai, l’attacco alla nave Flottiglia e l’aggressione ai pacifisti, tutto questo ha provocato non pochi problemi ad Israele. Inoltre, non è da sottovalutare la possibilità dello scoppio di una nuova terza Intifada, oltre al continuo declino dei rapporti bilaterali tra Israele e la Turchia, e lo sfilacciamento dei rapporti con l’ amministrazione Obama. In questo modo, è logico pensare che Israele abbia avuto una forte necessità di andare al vertice per respingere l’immagine negativa e distogliere l’attenzione dalla sua immagine di potenza occupante.

Sul fronte egiziano il messaggio che mandava il presidente Mubarak è altettanto chiaro. Cosa potrebbe spingere il presidente egiziano ad andare a Washington, nonostante le sue gravi condizioni fisiche? La risposta è stata data dallo stesso presidente, quando ha deciso di essere accompagnato da suo figlio Gamal Mubarak e di di incontrare con il premier israeliano Netanyahu. L’estremo desiderio di Mubarak è quello di risolvere la questione della successione e ottenere così la benedizione americana per tale desiderio.

Mentre invece l’Autorità palestinese rappresentata da Abbas ha partecipato senza un minimo di consenso palestinese. Nonostante il presidente Mahmoud Abbas abbia dichiarato molte volte che lui non avrebbe partecipato a nessun colloquio diretto con Israele finché continua la costruzione degli insediamenti sul territorio palestinese, stranamente lo troviamo lì insieme a Saeb Arikat che ripeteva spesso le stesse parole di Abbas. Però senza questa presa di posizione palestinese sarebbe stato possibile realizzare uno scenario per la pace?

A questo punto chiave è il ruolo della Giordania. I giordani in questo caso, cosa possono portare al tavolo dei negoziati?

Oggi, in molte occasioni e luoghi, si nota la ripetizione crescente della parola “alternative country” e molti vedono la soluzione nella vecchia proposta israeliana della trasformazione della Giordania nella Palestina: la frequenza dell’uso della parola si associarebbe a progetti e piani che stanno per realizzarsi. Questo è confermato anche dalle ultime parole di un importante funzionario dell’UNRWA Andrew Whitley, il direttore dell’ufficio di New York al consiglio nazionale dei rapporti arabo-americani a Washignton il 22 ottobre 2010.

Sul fronte giordano interno, la dichiarazione rilasciata dal Comitato Nazionale dei Pensionati Militari il primo di maggio è stata – senza dubbio – la prima mossa politica sulla scena politica giordana che dichiara il pericolo di perdere l’ identità giordana a favore del progetto del paese alternativo. Inoltre, queste preoccupazioni appaiono nell’articolo di Robert Fisk “Why Jordan Is Occupied By Palestinians”, pubblicato su “The Independent” il 22 Luglio 2010, in cui lo scrittore raccoglie la dichiarazione e va oltre l’affermazione, tentando di analizzare l’ intera situazione giordana che ha spinto questi militari a scrivere una lettera.

Il vero rischio giordano oggi consiste in due punti, il primo, e il più importante, e’ l’incapacità dello stato giordano di trattare con le nuove forze politiche, sia quelle nascenti o quelle già esistenti, spingendo molti a far parte dell’opposizione che rivendica una protezione dell’ identità giordana. Mentre il secondo punto sta nel vedere le questioni giordane diventare un oggetto di dibattito per la comunità internazionale. E questo sarà la fase che potrà rendere queste proposte più logiche, proposte che appaiono come l’unica soluzione del dilemma Palestinese.