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Don’t Ask Don’t Tell: la battaglia continua

E’ notizia freschissima che una corte d’appello federale avrebbe sospeso l’ordinanza del giudice distrettuale della California, che aveva ingiunto al governo americano di cessare la politica discriminatoria nei confronti di gay e lesbiche arruolati nelle Forze Armate statunitensi.

Il governo di Obama, che dall’inizio si era mostrato disponibile ad appoggiare una modifica della famigerata politica del Don’t Ask Don’t Tell ma se l’è vista scippare al Senato, ha dichiarato di voler rispettare la sentenza del giudice californiano e, contemporaneamente, ha fatto appello contro la sentenza. Ovviamente, sta arrancando.

Questa vera e propria guerra giudiziaria contro il Don’t Ask Don’t Tell è iniziata ormai da  molto tempo. I giudici non se la sono mai sentita di dichiarare quella politica incostituzionale, ma ora è giunto il momento della resa dei conti.

Andiamo con ordine. Quella policy, introdotta da un Bill Clinton ipocrita e politicamente compromesso (ricordate il sigaro? No, scusate, era della Lewinsky!) è stata giustamente oggetto di durissime critiche. Soldati valorosissimi, umili servitori della patria e dediti al loro lavoro, impegnati in turni estenuanti in Somalia, Kosovo e oggi in Iraq e Afghanistan, costretti al silenzio.

Come Michael Almy, da 13 anni nelle Forze armate, congedato dal giorno alla notte dopo che, con una perquisizione illegale, i suoi comandanti avevano scovato un’e-mail inviata a un amico nella quale si discuteva di omosessualità.

Come Joseph Rocha, vessato al limite della violenza da un suo superiore, minacciato di corte marziale, costretto a rivelare di essere gay.

O come John Nicholson, eccellente traduttore, licenziato per aver inviato un’e-mail a un amico portoghese con cui aveva avuto una breve relazione anni prima.

Tutte queste persone sono apparse davanti al giudice per rendere testimonianza di una policy contraddittoria e meschina.

Contraddittoria perchè, come ha messo in luce il giudice federale, non è affatto vero che il Don’t Ask Don’t Tell favorisce il cameratismo e l’efficienza delle Forze Armate, come chi l’ha scritto aveva sbandierato. Anzi, proprio in contrario: per paura di ritorsioni, gay e lesbiche dell’esercito se ne stavano per conto loro, minando così quella coesione che la legge avrebbe invece voluto promuovere.

Molti omosessuali si sono rifiutati di arruolarsi e la conseguenza è stata che, per condurre e mantenere le dispendiose campagne all’estero promosse dal governo Bush, il Pentagono ha dovuto accettare l’arruolamento di pregiudicati e di ragazzi e ragazze fisicamente inidonei. Per non parlare della protesta delle facoltà di legge, che impedisce l’arruolamento nelle università per non aderire a una discriminazione sancita per legge.

Meschina perchè favorisce la falsità e l’ipocrisia. Quella legge, infatti, vieta che si parli di sessualità, e lo vieta solo a gay e lesbiche, non agli eterosessuali. Di conseguenza, è un  limite alla libertà di espressione basato sul contenuto del messaggio, contrario  al I Emendamento.

Chissà come andrà a finire.

Certo è che Obama si trova in un bel pasticcio. Il legislatore non vuole abolire il Don’t Ask Don’t Tell e i giudici, invece, gli dicono di farlo. Immaginate cosa accadrebbe da noi se un giudice osasse arrivare a tanto: quali echi dagli altoparlanti del Vaticano, quali tuoni dal governo di Nostro Signore delle Escort. Colpa dei giudici, si direbbe. Che oltre a mangiare i bambini, ora se la prendono con i poveri eterosessuali.

Ebbene, questa è una battaglia che tutti hanno interesse a vincere. Quella del Don’t Ask Don’t Tell, insieme alla legge federale – sempre figlia, guarda caso, di Bill Clinton, tanto ligio ai propri doveri coniugali – che vieta il riconoscimento dei matrimoni gay, è l’ultima discriminazione che porta la firma di un presidente americano.

Questa discriminazione è destinata in qualche modo a finire: “La società ha scoperto la discriminazione come un’arma sociale potente, grazie alla quale si possono uccidere le persone senza spargimento di sangue“, diceva Hannah Arendt.

E di sangue, francamente, se n’è sparso abbastanza.