Società

Tutti i nemici del clima “Paghiamo per continuare a inquinare”


Le lobby mondiali in missione a Copenaghen contro i governi

di Leo Sisti

A Copenhagen ci saranno anche loro, i rappresentanti delle lobby più potenti della terra. Si faranno sentire.

Distribuiranno volantini. Organizzeranno contromanifestazioni nella capitale della Danimarca quando per due settimane, da lunedì, capi di Stato e di governo di 192 nazioni si affronteranno sui provvedimenti da adottare al summit internazionale dell’Onu nella lotta ai cambiamenti climatici: cioè, come ridurre le emissioni di gas serra, causa principale del riscaldamento globale.

Dentro, al Bella Center, sede della conferenza, si assisterà al duello tra i paesi Occidentali, cosiddetti sviluppati, e i paesi emergenti, ora grandi attori dell’economia mondiale, Cina, India, Brasile, divenuti anch’essi grandi inquinatori, indicati, dalle loro iniziali, Bric.
S’accapiglieranno tutti, chi ha firmato il protocollo di Kyoto del’97, entrato in vigore nel 2005, e chi no, come gli Usa, e chi ne è stato esentato, proprio il trio Bric, per consentir loro di crescere.

Ma fuori, nei quartieri di Copenhagen, si svolgeranno ben altre battaglie, quelle dei lobbysti, che lanceranno grida d’allarme sui costi di misure drastiche, se saranno eventualmente prese, con la crisi mondiale che galoppa e le file della disoccupazione che s’ingrossano sempre più, giorno dopo giorno.

Del resto chi si sventa contro i pericoli della diminuzione dei consumi energetici e dell’inquinamento provocato bruciando petrolio, carbone e gas, ha già fatto in patria un bel lavoro preparatorio.

Lo denuncia un rapporto dell’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), emanazione del Center for Public Integrity (www.publicintegrity.org), organizzazione di Washington da anni in prima linea nell’accusare fatti e misfatti del potere, americano e non.

È un’inchiesta durata da luglio a novembre, e condotta da una dozzina di giornalisti in 8 paesi.

Le conclusioni sono sconcertanti. Perché dietro le lobby di tutto il globo, è ovvio, si sta muovendo il grande business, pronto a paventare scenari apocalittici e a investire milioni di dollari in campagne contro leggi restrittive sull’ambiente per influenzare l’opinione pubblica, dagli Usa al Canada, dall’Australia al Brasile.

Il più popolare dei lobbysti americani è il re del carbone Dan Blankenship, che nelle montagne ricche di minerali dell’Appalachia, est degli Stati Uniti, organizza le adunate Friends of America con complessi che allietano il pubblico a suon di musica country, mentre lui declama: “Imparate come gli estremisti dell’ambiente stanno cercando di distruggere i vostri posti di lavoro”.

Prendendosela con gli “scienziati del global warming” e con una normativa già passata in estate alla Camera dei Rappresentanti (la Camera dei deputati), mister Blankenship mette in guardia contro nuove tasse che potrebbero alzare il costo del carbone, combustibile che alimenta metà dei consumi di elettricità negli States.

Con una reazione immediata: migliaia di cittadini infuriati, che temono di veder salire la propria bolletta energetica da 80 a 175 dollari per famiglia all’anno, e hanno inondato i centralini del Senato, che deciderà in merito dopo Copenhagen.

La Koch Industries, la seconda compagnia petrolifera in mani private, ha speso 4 milioni di dollari nel 2009 in attività di lobby. I suoi proprietari, David e Charles Koch , hanno finanziato gli attivisti di Americans for Prosperity. Che hanno noleggiato un grande pallone aerostatico facendolo volteggiare nei cieli di Pennsylvania, Montana e Nebraska con una scritta minacciosa: “Allarmismo global warming=meno lavoro-più tasse-meno libertà”.

L’American Petroleum Institute (Api), un gruppo che si occupa di mercato di prodotti petroliferi, ha iniettato decine di milioni di dollari nel programma Energy Citizens, finanziato perfino dalla Camera di Commercio Usa.

Il suo presidente, Jack Gerard, ha sollecitato le società che fanno parte di Api a promuovere incontri di massa con venditori, fornitori, pensionati pur di propagandare il nuovo verbo anti-leggi sul clima.

Solo nel 2009, ben 47 milioni di dollari sono stati gettati nel pozzo delle iniziative contro le iniziative per limitare gli effetti dell’anidride carbonica sull’ambiente.

Non fa meraviglia allora apprendere, dal rapporto di Icij, che i corridoi di Capitol Hill, il Congresso americano, vengono battuti in lungo e in largo da 2.810 lobbysti, regolarmente registrati in rappresentanza di 1.150 società, che premono perché vengano adottate norme sul clima a seconda dei propri interessi.

E quali interessi: con appena il 4,5% della popolazione mondiale gli Usa sono responsabili del 18% di emissioni globali di gas serra, oggi secondi al mondo dopo la Cina.

Facciamo un balzo in Brasile e scopriremo una realtà non dissimile. Qui, dove le foreste amazzoniche costituiscono il polmone che assorbe “naturalmente” le maggiori emissioni di anidride carbonica del pianeta, il presidente Lula ha annunciato di voler ridurre il tasso di deforestazione dell’80% entro il 2020.

Mal gliene incoglie. Ne sa qualcosa il suo ministro dell’Ambiente Carlos Minc.
Un governatore di una zona amazzonica è stato minacciato da uomini dell’industria agricola, specialmente produttori di soia: vogliono avere mani libere nelle loro terre.

In un altro continente, che pure ha sottoscritto l’accordo di Kyoto, l’Australia, il magnate russo Oleg Deripaska, uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio di 28 miliardi di dollari, è irritato con il primo ministro Kevin Rudd, autore di un piano che vuole affrontare il global warming.

Re dell’alluminio, con fabbriche che vanno dalla Siberia, appunto, all’Australia, Deripaska ha lanciato un duro avvertimento al Department of Climate Change di Canberra. Possiede una raffineria a Gladstone, nel Queensland, che produce 4 milioni di tonnellate di alumina (di qui poi l’alluminio) e dà lavoro a più di mille persone.

Si sa, l’alumina consuma grossi quantitativi di elettricità, a poco prezzo, perché viene prodotta bruciando il carbone, quindi con alti tassi d’inquinamento.
Deripaska è stato esplicito. Se il “piano Rudd” va avanti, “distruggerebbe posti di lavoro e sarebbe dannoso per gli attuali e i nuovi investimenti” .

Per tentare di bloccarlo, o comunque di ammorbidirlo, cento lobbysti, soprattutto ex politici o ex funzionari statali, stanno lavorando ai fianchi il governo, forti di rappresentare gli interessi di 20 società del carbone, di cui l’Australia è il più grande esportatore al mondo.

Anche dall’India, al 5° posto nelle emissioni di gas serra, arrivano notizie inquietanti. Ogni anno più di un milione di nuove automobili si riversano sulle strade. Quindi, anidride carbonica a tutta canna.

Come intervenire? Bharat Wakhlu, direttore di Tata, il maggior gruppo industriale del continente, dalle auto alle centrali, dice: “Noi crediamo in un comune e differenziato approccio, perché dobbiamo mantenere la nostra competitività e, al tempo stesso, assicurare la salvezza del globo”. Una dichiarazione neanche tanto sibillina, se si analizza l’ultima uscita del ministro indiano dell’Ambiente, Jairam Ramesh.

La bozza che presenterà a Copenhagen, e che già avrebbe l’ok di Brasile e Cina, non stabilisce tagli delle emissioni, ritenute già molto basse, pro capite, in quei paesi. Il messaggio è chiaro. Usa e Ue, il terzo “inquinatore” mondiale, diano il buon esempio e procedano per primi con quei maledetti tagli. Gli altri, Brasile, India e Cina, seguiranno. Per questo Copenhagen sarà fallimento.

Da Il Fatto Quotidiano del 5 dicembre