Gli scivola addosso il bilanciere in palestra: bodybuilder muore a 55 anni dopo aver usato la “presa suicida”. Il video choc ripreso dalle telecamere

Il bodybuilder Ronald Montenegro, con 30 anni di esperienza, è stato colpito al petto dal peso in Brasile. La tecnica "suicide grip" è fatale: l'uomo è morto per arresto cardiaco
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Un allenamento di routine, una tecnica rischiosa padroneggiata per decenni, e poi l’incidente fatale: il bilanciere scivola e si trasforma in una condanna a morte. Ronald José Salvador Montenegro, bodybuilder di 55 anni, è morto in una palestra di Olinda, in Brasile, dopo essere stato colpito al petto dal peso che stava sollevando. La tragedia, ripresa dalle telecamere di sicurezza, è un monito sulla sottile linea tra l’esperienza sportiva e il rischio.

L’episodio è avvenuto mentre Montenegro, cliente abituale della palestra e con oltre 30 anni di esperienza nel bodybuilding, stava eseguendo l’esercizio alla panca piana. L’uomo aveva sollevato un carico medio-alto (stimato oltre i 70 kg totali), ma il bilanciere gli è scivolato da entrambe le mani, cadendo e colpendolo in pieno sul torace. Secondo quanto ricostruito, Montenegro stava utilizzando la cosiddetta “falsa presa” – o “suicide grip” – una tecnica diffusa tra gli atleti esperti che permette di avere i polsi più dritti e stabili, diminuendo lo stress articolare, ma che, eliminando l’opposizione del pollice, aumenta esponenzialmente il rischio che il peso possa scivolare. Quei pochi centimetri di distanza tra il bilanciere e il suo petto si sono rivelati fatali.

Il video dell’incidente, circolato sui social, mostra la drammatica sequenza: Montenegro, colpito dal bilanciere, riesce ad alzarsi e a muovere solo un paio di passi prima di stramazzare a terra. Nonostante il rapidissimo intervento del personale della palestra e il trasporto d’urgenza al pronto soccorso di Olinda, i soccorritori non sono riusciti a rianimarlo. L’uomo è morto per un arresto cardiaco sopraggiunto in seguito al colpo secco ricevuto sul torace.

I familiari hanno confermato che Montenegro non aveva mai subito incidenti di questo tipo durante la sua lunga carriera sportiva. La Polizia Civile di Pernambuco ha classificato il caso come morte accidentale, escludendo qualsiasi fattore esterno o intenzionale nella tragedia. L’episodio, così assurdo nella sua immediatezza, sottolinea la pericolosità di una tecnica che, se pur usata da atleti esperti, non lascia margini di errore.

@tenpageslater8HARD TO WATCH: A man died in Brazil after he lost control of a barbell that came crashing down on his chest

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“Non ricordo volti né nomi, vivo di appunti. Se potessi vivrei la vita di un carrozziere”: Marco Bocci e la battaglia con la memoria dopo l’infezione cerebrale

E sul set con Laura Chiatti: "Guardarci così maniacalmente è stato come stare su una macchina da corsa"
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“Ci sono molte cose di quel periodo che non so mettere a fuoco, le so solo perché me le hanno raccontate”. È con questa confessione disarmante che Marco Bocci affronta la realtà della sua vita dopo la grave infezione cerebrale che, nel 2018, gli ha cancellato parte dei ricordi e causato problemi di memoria persistenti. In un’intervista a VanityFair, l’attore 42enne ha spiegato di vivere i giorni che precedono ogni intervista o spettacolo teatrale con “una certa ansia”, simile a una Notte prima degli esami, perché sa di dover restare costantemente concentrato.

Il problema di memoria di Bocci non è solo l’oblio, ma la difficoltà di associare i volti ai nomi e di ricordare i fatti di quel periodo cruciale della sua vita: “Il vero problema è che non mi ricordo i volti e non li associo ai nomi”, ha confessato. La sua strategia per sopravvivere alla vita pubblica è quella di “far finta di conoscere sempre tutti”. Ma il bluff spesso fallisce, portandolo a parlare “in maniera affettuosa, anche intima, con le persone, cercando di trovare un aggancio”. La verità viene a galla solo quando gli chiedono un selfie: “Ma porca miseria, non le conoscevo mica”.

La sua vita è diventata una battaglia quotidiana contro l’oblio, che lo costringe a una disciplina ferrea: “Ho quaderni pieni di appunti, note sul cellulare. Il vero problema è che non mi ricordo i volti e non li associo ai nomi. La mia strategia è far finta di conoscere sempre tutti. Ma poi che cosa succede? Che mi metto a parlare in maniera affettuosa, anche intima, con le persone cercando di trovare un aggancio nella conversazione che mi riporti alla memoria chi sono. All’inizio, questa cosa mi ossessionava, adesso, accetto la situazione: se non ricordo qualcosa, pazienza”.

In questi giorni, l’attore ha affrontato un’ulteriore sfida professionale e personale: lavorare per la prima volta al fianco della moglie, Laura Chiatti, sul set della miniserie natalizia Se fossi te. Un’esperienza che si è rivelata un’analisi “maniacale” del loro rapporto. “Non avevamo mai recitato insieme. È stata l’occasione per guardarci in maniera diversa”, ha spiegato. Normalmente, “non ci eravamo mai soffermati a osservarci in modo così maniacale, dalle piccole espressioni ai modi di reagire, di parlare”. L’esperienza è stata straniante: “È stato come osservare una persona diversa da quella con cui sto da 11 anni all’interno di un contesto che, per assurdo, conosco molto bene. C’era una sorta di conflitto di interessi di famiglie. Ma è stato molto divertente”. Nonostante le sue paranoie iniziali sul mescolare vita e professione (“Ho sempre pensato che ci voglia una separazione tra vita e professione. Più stai con tuo marito, tua moglie, più aumenta la possibilità di trovarsi a discutere”), l’attore è felice del risultato. E, con l’occasione, ha poi ricordato di quando Laura Chiatti gli chiese il divorzio subito dopo essersi sposati: “Com’è possibile giurarsi amore eterno e divorziare poche ore dopo?”. Quando me lo ha detto ci ho creduto al 20 per cento”.

La sfida più profonda, però, è arrivata dai suoi figli, Enea (11 anni) e Pablo (10 anni). Bocci ha spiegato che i bambini di oggi sono “precoci” e “hanno le idee chiare su quali siano i loro bisogni”. “Il che vuol dire che si accorcia il periodo in cui vedono i padri e le madri come eroi, qualunque cosa facciano. Iniziano presto a dirti se sono d’accordo o no con quello che fai e dici”. Questo anticipo nel giudizio lo ha costretto a riflettere sul suo passato di “conflitti”: l’attore ha ricordato la sua adolescenza “insoddisfatta”, quando sfogava la sua frustrazione urlando con i genitori per una motocicletta o una macchina negata, uno scontro che in realtà era “un pretesto” per un cambiamento.

Di fronte al futuro, Bocci si è mostrato sereno, ammettendo poi di detestare la vita frenetica che conduce: “Per quanto ami il mio lavoro, detesto la vita che faccio. Avrei bisogno di regolarità, vorrei viaggiare solo in vacanza. Sono un abitudinario, amo la casa dove vivo, le cose semplici”. Ma la sua strategia per la memoria e per la vita è chiara. Se non ricorda qualcosa, “pazienza”. E se un giorno potesse vivere la vita di qualcun altro? “Vorrei vivere tutti i giorni la vita di chi si fa meno pippe mentali di me. Fare un lavoro che mi consenta di staccare un po’ il cervello, vivere la vita di un carrozziere“. Un lavoro manuale, concreto e “dritto”, l’esatto opposto del tumulto emotivo in cui il suo mestiere lo costringe a vivere.

Uomo di 35 anni ucciso in una lite a Salerno: i carabinieri arrestano il proprietario di casa

L'episodio è avvenuto nella zona orientale della città. Il proprietario di casa accusano di omicidio preterintenzionale. Indagano i carabinieri
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Un litigio in casa è finito nel peggiore dei modi possibili. Nella scorsa notte, un uomo di 35 anni è stato ucciso al culmine di una violenta lite in un appartamento di via Gabriele d’Annunzio, a Salerno. Stando alla prima ricostruzione fornita dalle indagini, la vittima si trovava nell’abitazione quando è scattato un litigio con il proprietario di casa, Luca Fedele.

Tra i due è nata una violenza colluttazione durante la quale il 35enne è stato colpito con un pugno, è caduto ed è morto. Ancora non è chiaro se il decesso sia avvenuto a causa del colpo oppure della caduta. I carabinieri hanno arrestato il proprietario di casa con l’accusa di omicidio preterintenzionale, e stanno lavorando per trovare il movente della lite che ha portato alla morte dell’uomo.

Croceristi israeliani a Brindisi, sputi e minacce contro un gruppo di manifestanti per la Palestina: “Vi uccido, non scherzate con noi”

Una turista si scaglia contro i manifestanti: "Vi uccido, non scherzate con gli israeliani"
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Insulti, sputi e minacce. Tensione a Brindisi tra un gruppo di croceristi israeliani e alcuni ragazzi che avevano manifestato al porto poco prima con bandiere della Palestina in solidarietà con Gaza e contro il genocidio. L’episodio avvenuto nel centro città è stato ripreso e postato sui social. Una turista israeliana in particolare si scaglia contro i ragazzi che sono seduti: “Vi uccido, non scherzate con gli israeliani”. Poco prima al porto era stata organizzata una protesta per l’arrivo di una nave da crociera, la Crown Iris, con numerosi turisti israeliani a bordo. Sul posto erano presenti anche agenti della Digos che hanno evitato contatti. I turisti a bordo e anche una volta sulla terraferma hanno reagito alla protesta con gesti di scherno e insulti verso gli arrivisti.

“La Lady Macbeth della Prima della Scala? Sesso e morte, un crime perfetto. La carriera di Beatrice Venezi anomalia da tempo, gli orchestrali meritano rispetto”

Intervista a Paola Molfino, direttrice di MusicPaper, a cui ilfatto.it ha chiesto un po' di istruzioni per l'uso per seguire l'opera che risuonerà in tv la sera del 7 dicembre, sui giovani e la classica, sul fenomeno Rosalia e anche sulla direttrice più contestata. (Sì, c'è anche la risposta alla domanda: "Sa dirigere?")
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Cosa ci si deve aspettare dalla Lady Macbeth del distretto di Mcensk, l’opera che risuonerà in milioni di televisori collegati con la Prima della Scala? Beatrice Venezi merita il posto in cui è stata calata, alla Fenice di Venezia, uno dei teatri più importanti del mondo? L’album spaccatutto di RosaliaLux – può davvero bastare come ponte tra la musica pop e la musica classica? Teatri, sale concerto, auditorium aspettano e sperano che le loro platee si colorino non solo di teste canute ma anche dei colori sgargianti della gioventù. Qual è la formula per distrarre occhi e orecchie dalla musica scelta non solo sull’onda del trend ma perfino con le istruzioni di un algoritmo social? In un tempo – questi giorni, questi mesi – in cui la musica cosiddetta colta bussa alla porta anche di chi non ne conosce tutti i segreti c’è urgente bisogno di un po’ di senso dell’orientamento. E lungo questa strada Ilfattoquotidiano.it ha scelto di chiedere indicazioni alla direttrice – e fondatrice – di una rivista online specializzata in informazione e cultura musicale. La rivista si chiama Music Paper e la direttrice è Paola Molfino, giornalista che per più di trent’anni ha lavorato ad Amadeus (che ha anche diretto) e ora da tre guida questo giornale dinamico, vivace, fresco, capace di utilizzare tutto l’alfabeto nuovo della comunicazione (podcast, playlist, reel) accanto a quello più tradizionale (le grandi firme, le recensioni, la critica), di risultare sofisticato e nello stesso tempo inclusivo nei linguaggi: “Musica da leggere” la chiama Paola Molfino. Un lavoro formidabile in quella disciplina apparentemente impossibile che è offrire ai lettori tanto il paesaggio familiare e confortevole di ciò che conosce e riconosce quanto nuovi impulsi da mondi meno frequentati.

Direttrice Molfino, partiamo da lontano: Rosalia. Il suo album brucia i record, è stato accolto come una rivoluzione, ribalta le regole pop, demolisce quelle tiktok, esalta la contaminazione tra generi e mondi. Compresi quelli della musica colta con riferimenti a Vivaldi, Mozart, la musica sacra. In questa standing ovation generale voi siete stati più cauti.
A Music Paper nessun pregiudizio, però cerchiamo sempre di stimolare il giudizio critico, di aprire riflessioni, confronti di idee anche attraverso i social. Di non di appiattirci sul percepito dello scrolling o del like. Siamo stati subito colpiti dal singolo di Rosalia Barghain e dal video. Dalla sua potenza e dai riferimenti musicali, simbolici, visivi. E dall’impatto della strategia di comunicazione, azzeccatissima, come si è visto. Prima ancora che tutto l’album Lux uscisse abbiamo pubblicato un reel perché ci siamo detti che era giusto registrare il fenomeno. E poi con un articolo di approfondimento abbiamo posto una domanda che è giusto farci mentre ascoltiamo Rosalia e che provo a sintetizzare così: “Siamo sicuri che basti usare degli archi e cantare in un certo modo per dire che si tratta di musica classica?”

Non crede però che una popstar che rimanda alla musica barocca sia un’occasione per aprire nuove finestre di fronte a generazioni meno abituate alla fruizione della musica classica?
Assolutamente sì, quindi benvenuta Rosalia. Che si unisce a un elenco di illustri predecessori: artisti del pop, del rock, della musica urban che da sempre attingono a sonorità e arrangiamenti “classici”. Negli anni Duemila per esempio lo ha fatto perfino Kanye West in Late Orchestration. O per venire a un recente caso nostrano sfuggito forse ai più Caparezza in una traccia del suo ultimo disco Orbit Orbit: Purification con un’orchestra di più di 70 elementi e un coro. Però noi poi abbiamo il dovere – essendo una testata specializzata – di approfondire di esercitare il pensiero critico. Ed è stata un’occasione per una bella discussione in redazione: a Music Paper lavorano giovani storici della musica e critici, che sono anche musicisti, curiosi e competenti. E uno spunto per parlare a nuove generazioni e soprattutto a persone che come noi, amano la musica ma quella bella, al di là dei generi.

Cosa consiglierebbe allora a un ventenne che volesse avvicinarsi a certi suoni a cui non è abituato perché radio, tv, social non gliene danno occasione?
Di non avere paura e di abbandonare i preconcetti, come noi dobbiamo abbandonare quelli che spesso abbiamo sui giovani: che non sono curiosi, che sono ignoranti che non vogliono fare fatica. Sappiamo benissimo che la classica è considerata musica per vecchi, che è vissuta come noiosa. E che in Italia non la si insegna a scuola come succede per la storia, la letteratura, l’arte o la filosofia. E paradossalmente è più facile che i ragazzi si appassionino all’opera con le sue storie senza tempo, al rito del teatro del vestirsi bene piuttosto che alla musica sinfonica o da camera. Oppure pensiamo al fenomeno dei candlelight concerts musicalmente cheap ma esperienziali. Anche ascoltare i Notturni di Jonh Field (compositore irlandese del primo Ottocento creatore del genere reso famoso da Chopin) come sottofondo mentre si studia o si lavora va benissimo. I Notturni di Field (non quelli di Chopin!) suonati al pianoforte da Alice Sara Otto sono l’album più ascoltato in streaming su Apple Classical Music nel 2025. L’importante per ascoltare e amare la classica non è avere il diploma di conservatorio o la laurea in Musicologia ma orecchie, cuore e mente aperti. Ciò detto, sono 50mila le ragazze e i ragazzi che studiano musica nei conservatori italiani e migliaia ancora nelle università e sono esattamente come tutti i loro coetanei. A loro affidiamo il futuro della musica che amiamo, confidando che loro sappiano essere “virali”.

Con i nuovi canali social è più facile avvicinarli. Ci sono musicisti-influencer che si fanno domande e danno risposte for dummies come si dice, raccontano le sinfonie di Beethoven o analizzano i notturni di Chopin. Percepisce che può esserci un momento di apertura nei confronti del resto del pubblico anche non “forte”?
Sicuramente l’approccio conta, i media e i nuovi linguaggi sono fondamentali, gli influencer dell’opera e della classica anche in Italia stanno diventando sempre più numerosi, però ancora vige un po’ la regola del “fai da te” e i risultati non sono sempre esaltanti. A Music Paper interessa molto esplorare tutto quanto si può fare per comunicare e abbattere barriere. Ma il rischio che noi non vogliamo correre è quello della banalizzazione e intendiamo mantenere alta l’asta della qualità. Per esempio sta per partire una collaborazione social con Eugenio Radin che su Instagram è Whitewhalecafe: Eugenio è un filosofo ma anche musicista ed è un ottimo divulgatore e un content creator che ha una visione della creazione di contenuti culturali molto affine alla nostra.

La Prima della Scala sarà la “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Shostakovich, non proprio un titolo nazionalpopolare né un modo ammiccante per aprirsi a un nuovo pubblico. Le chiedo però di contraddirmi, di farmi cambiare idea.
La contraddico con piacere: Lady Macbeth di Mcensk è un’opera fortissima e ha una musica tellurica, espressiva, esplicita. Un capolavoro, una storia di sesso e morte potrebbe essere uno di quei casi di cronaca nera che oggi tanto appassionano la tv e il web: adulterio, assassinio, c’è tutto. Parla di temi attualissimi, con una figura femminile che si trasforma in un mostro, ma è una vittima di violenza famigliare, di uomini che abusano di lei psicologicamente e fisicamente. È ambientata in Russia, paese ora in guerra al centro della scena internazionale, ma venne scritta nel 1934 nell’Unione Sovietica di Stalin da un ragazzo con gli occhialini tondi di soli 28 anni, Dimitri Šostakovič, un genio. Un’opera di successo che invece Stalin bollò come “caos anziché musica”. Scattarono la censura e il terrore: era il 1963 quando Šostakovič la modificò e la ripropose in teatro a Mosca. E poi chi l’ha detto che la Scala debba inaugurare con opere “nazionalpopolari”? L’audience Rai? È quello che sembra essere “consigliato” dal nuovo Codice dello Spettacolo la cui bozza strenuamente difesa dal sottosegretario alla Cultura Mazzi, sta suscitando tanti “mal di pancia”. Proprio un teatro importante come la Scala ha invece il dovere di proporre a un pubblico più ampio possibile anche titoli belli e meno noti: non solo Verdi e Puccini che pur adoriamo. Come ha detto il sovrintendente della Scala Ortombina al nostro giornale: “Noi siamo un servizio pubblico come un ospedale“.

Da mesi la lirica finisce sui giornali generalisti – compreso questo – non con le varie inaugurazioni di stagione bensì per la contestatissima nomina di Beatrice Venezi alla Fenice, con proteste insistite e quasi quotidiane (mai viste) da parte degli orchestrali. Vicende seguitissime dai lettori, anche quelli che non vanno a teatro. Su un giornale specializzato come il vostro come avete affrontato l’argomento?
Da tempi non sospetti ci occupiamo del “caso Venezi”, sin da quando siamo usciti nel 2022 con una serie di articoli e retroscena molto approfonditi di Paola Zonca. Io da giornalista mi occupo di classica da 35 anni e la carriera di Beatrice Venezi è da tempo un’anomalia perché più che su argomenti musicali lei sembra aver sempre puntato più sulla comunicazione, l’immagine, il marketing, la questione di genere e la protezione politica con gli incarichi di consulente, le nomine piovute dall’alto. E questo – noi lo abbiamo scritto anni fa – non le avrebbe portato bene. Anche della cronaca della vicenda Fenice ci siamo occupati e ci stiamo occupando ovviamente con retroscena e aggiornamenti. Ma la domanda che mi sono posta al di là della cronaca è stata un’altra. Come quando nel calcio gioca la Nazionale, nel caso Venezi tutti si sono sentiti autorizzati a intervenire: ma sappiamo chi è un direttore d’orchestra, cosa fa, a cosa serve il suo lavoro? E come lo si giudica, da quali parametri? Due grandi firme come Michele dall’Ongaro e Giovanni Gavazzeni hanno dato delle spiegazioni molto interessanti sul nostro giornale. Un approfondimento per chi vuole capire oltre che informarsi.

Tolte le eventuali tifoserie, resta la domanda: Venezi sa dirigere?
Beatrice Venezi ha studiato direzione, ha un diploma di Conservatorio, ha diretto orchestre in concerti sinfonici e (poca) opera: quindi “sa” dirigere. Ma non abbastanza da poter ambire alla direzione musicale, quindi alla guida, alla formazione, alla costruzione del valore di una grande orchestra lirico-sinfonica. Con la quale per di più non ha nessuna consuetudine del fare musica insieme. L’orchestra della Fenice l’ha diretta solo una volta per un concerto privato. È questione di talento, certo, di bravura, ma anche di repertorio: bisogna saper affrontare autori di epoche e stili diversissimi tra loro. Quello del direttore musicale è un incarico articolato, completo e complesso. I professori di un’orchestra meritano rispetto per poter restituire rispetto. Non ridere di loro mentre si guarda Prova d’Orchestra di Fellini, come ha raccontato di recente il presidente di Biennale Buttafuoco, ormai veneziano d’adozione e suo grande fan, come il ministro Giuli il quale come noto ha sentenziato che lei “diventerà la principessa di Venezia e l’Orchestra si innamorerà di lei”. L’aria è di normalizzazione. Colabianchi, il sovrintendente sfiduciato dai lavoratori e Venezi non si toccano. Non so come andrà a finire. Ma Claudio Abbado diceva: “Nella musica come nella vita bisogna sapersi ascoltare”.

Questa storia ha avuto almeno il merito di suscitare maggiore curiosità nei confronti della musica classica e lirica? C’è più o meno “fame” di informazioni su questi mondi a volte percepiti come distanti?
C’è fame di informazione e di retroscena quando si tocca la politica e l’attualità, meno di approfondimento. Gli articoli su Beatrice Venezi sono da sempre tra i più cliccati di Music Paper. Con una dose niente male di haters e fraintendimenti da mettere in conto sui social.

Come si fa a raccontare la musica colta solo sul web utilizzato più da lettori giovani che da “maturi”? Che strumenti anche operativi e che linguaggio usate per “farvi scegliere”?
Usiamo il web per gli approfondimenti, articoli di “storia e storie della musica”, interviste, recensioni di spettacoli, libri, dischi, pezzi di attualità, le rubriche degli editorialisti e parliamo di anche jazz, danza, letteratura. La musica e il mondo che le gira intorno. E lo facciamo pure con i podcast e con le nostre playlist Spotify create dalla redazione a corredo degli articoli. Musica da leggere, da vedere, da ascoltare. Abbiamo grandi firme per l’autorevolezza e giovani (anche giovanissimi) collaboratori per la freschezza. Preparati, appassionati, curiosi. Music Paper è un giornale, un magazine che fa informazione, divulgazione e opinione. E sui social decliniamo questa vocazione con un altro linguaggio, più catchy e attento alle tendenze ma sempre profondo e curato nel contenuto. Digitale ma non superficiale, insomma. E la cosa bella sa qual è? Che questa comunicazione in continuo cambiamento, tanto complicata da gestire perché richiede velocità e il continuo aggiornamento di nuove competenze e nuove skills va colta come una grande opportunità per chi ancora crede nell’intelligenza delle idee.

L’Ue multa X e gli Usa scendono in campo: “Attacco al popolo americano”

La Commissione vuole far pagare 120 milioni alla piattaforma. Da JD Vance a Marco Rubio, l'amministrazione Usa si scatena: "I tempi della censura sono finiti"
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Alla fine, dopo due anni di indagine segnati da pressioni e battute d’arresto, l’Unione Europea ha deciso di multare X, il social network di Elon Musk, per 120 milioni di euro per aver violato la legge sui servizi digitali. Si tratta delle prime sanzioni comminate ai sensi della storica normativa europea concepita per porre fine al “far west” online che obbliga le piattaforme tech a una maggiore trasparenza e responsabilità sui contenuti illegali e dannosi che inondano lo spazio digitale.

Più un buffetto che uno schiaffo al colosso di Musk, ma che ha subito acuito le tensioni con Washington. Il vice presidente degli Stati Uniti JD Vance ha criticato Bruxelles, rea di voler multare X per “non aver imposto la censura”. In serata, l’affondo del segretario di Stato Marco Rubio che ha bollato le sanzioni a X come “un attacco a tutte le piattaforme tecnologiche americane e al popolo americano da parte di governi stranieri”.

“I tempi della censura online degli americani – ha avvertito – sono finiti”. Un mantra dell’amministrazione Usa targata Donald Trump che ha fatto della crociata alle regole europee sul digitale una missione. Con gli Stati Uniti si è schierato il vicepremier italiano Matteo Salvini: “La multa a X da parte di Bruxelles è un attacco alla libertà di espressione. Con il Dsa, che la Lega – e solo la Lega, unico partito italiano a votare contro in Europa – ha sempre denunciato come un’arma di censura, l’Ue usa le sue regole per colpire chi dà voce a chi la pensa diversamente. No alla legge bavaglio europea: viva la Libertà, sempre”.

Secca la replica della vice presidente della Commissione, Henna Virkkunen, responsabile Ue per il digitale: “La multa a X – ha tagliato corto – riguarda la trasparenza, non ha nulla a che fare con la censura”. Rispedita al mittente anche l’accusa di voler colpire le big tech a stelle e strisce: “Le nostre regole valgono per tutti coloro che operano in Europa”, ha detto Virkkunen che ha promesso “nuove decisioni nei prossimi mesi”.

Nel merito, palazzo Berlaymont ha inflitto tre sanzioni al social di Musk, una per ogni violazione contestata. La prima, da 45 milioni di euro, è legata alla spunta blu usata per gli account verificati. Per Bruxelles si tratta di un inganno dato che chiunque può pagare per ottenerla senza che vi sia una verifica dell’azienda su chi si cela dietro l’account. La seconda sanzione, da 35 milioni di euro, riguarda la mancanza di trasparenza dell’archivio pubblicitario, importante ad esempio per rilevare truffe e campagne di minacce ibride. La Commissione ha contestato infine la violazione dell’obbligo di garantire ai ricercatori l’accesso ai dati pubblici della piattaforma, comminando una terza sanzione da 40 milioni di euro. È ancora in corso invece l’indagine sull’aspetto politicamente più delicato del dossier, quello dei contenuti illegali e della manipolazione delle informazioni.

Tiepida l’accoglienza riservata all’annuncio. Europarlamentari di diversi schieramenti hanno insistito sulla necessità di stringere i tempi su altre indagini, 14 quelle aperte finora ai sensi del Dsa. “Finalmente la Commissione si è mossa. Ci sono voluti due anni, troppi, di esitazioni e di timori”, è il commento di Sandro Gozi (Renew). Anche il dem Sandro Ruotolo sostiene che la multa da sola non basta: “Da mesi richiamiamo in plenaria l’urgenza di affrontare l’altra metà della questione: trasparenza reale sugli algoritmi, responsabilità sulla moderazione dei contenuti e tutela effettiva dei cittadini contro manipolazione e disinformazione”, aggiunge. Tanto che la stessa Virkkunen ha ammesso: “La decisione odierna rappresenta due importanti traguardi, ma sono solo la punta dell’iceberg”. Non meno perplessità le ha suscitate l’importo modesto delle sanzioni. Da palazzo Berlaymont hanno provato a smorzare la polemica. “La multa – hanno spiegato – deve essere proporzionale, il calcolo è determinato sulla base della natura, della gravità, della ricorrenza e della durata delle violazioni contestate”.

“Non è una stalker”: Elisabetta Franchi prosciolta dall’accusa più grave. Ma la stilista va a processo per diffamazione e minacce

Il Gup ha accolto solo in parte la richiesta della Procura. La difesa di Franchi: "Non arretreremo di un millimetro". I legali della vittima: "I fatti materiali restano reato
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“Finalmente è stato riconosciuto apertamente che Elisabetta Franchi non è una stalker”. È con questa dichiarazione di soddisfazione che l’avvocato Gianmaria Palminteri, difensore della stilista, ha commentato l’esito dell’udienza preliminare che si è tenuta il 5 dicembre a Milano. Dopo mesi di rinvii e richieste di riformulazione, il Gup Andrea Romito ha deciso di prosciogliere la stilista dall’accusa più grave, quella di atti persecutori (stalking), ma ha disposto il rinvio a giudizio per i reati di diffamazione e minacce aggravate, accogliendo solo in parte le richieste della Procura di Bologna.

La vicenda, che ha visto come parte offesa l’ex amica e consulente della stilista, ruota attorno a presunte ritorsioni scatenate da un tradimento sentimentale risalente a circa trent’anni fa. L’impianto accusatorio della Procura, guidato dal pm Luca Venturi, sosteneva che la Franchi avesse messo in atto una serie di comportamenti volti a screditare pubblicamente e privatamente l’altra donna. Nonostante la formula piena per lo stalking (“il fatto non sussiste”), il giudice ha ritenuto che i fatti materiali attribuiti all’imputata siano sufficienti per un processo.

I fatti contestati dalla Procura, che ora rientrano nelle accuse di diffamazione e minacce, sono i seguenti: la stilista è accusata di aver pubblicato su Instagram un post in cui, pur senza fare il nome, accusava l’ex amica di averla tradita. I follower avevano compreso chi fosse la persona, scatenando una tempesta d’odio social (o “shitstorm”) contro la vittima. C’è poi l’invio di messaggi WhatsApp dal contenuto denigratorio a vari amici comuni e di numerosi messaggi minatori sempre via WhatsApp, oltre ad aver offeso la reputazione dell’ex consulente e minacciato di procurarle danni ingiusti.

Nella scorsa udienza, la Procura aveva persino aggiunto un nuovo capo di imputazione: la famosa “storia” Instagram del 22 ottobre, in cui Franchi aveva postato una foto di champagne e una in cui si mostrava con il dito medio alzato, scrivendo: “Oggi ho vinto, ma ve ne parlerò presto”. Con quel post, secondo l’accusa, l’imputata aveva reiterato la condotta di shitstorm, fornendo una falsa rappresentazione della realtà che aveva screditato nuovamente la persona offesa.

Nonostante la parziale vittoria sul fronte dello stalking, la difesa di Elisabetta Franchi ha ribadito la volontà di combattere anche le accuse minori: “C’è soddisfazione da parte di questa difesa”, ha dichiarato l’avvocato Palminteri. “Finalmente è stato riconosciuto apertamente che Elisabetta Franchi non è una stalker. I suoi valori di donna e di imprenditrice sono completamente lontani dal profilo che le si voleva attribuire. Viceversa ci misureremo con il rinvio a giudizio per quanto riguarda i reati di diffamazione e di minacce. Non abbiamo intenzione di ritirarci di un millimetro”.

I legali dell’ex consulente, avvocati Chiara Rinaldi e Antonio Petroncini, pur prendendo atto della decisione del Gup, hanno sottolineato che la sostanza non cambia: “Rimane fermo che anche il giudice ha ritenuto come i fatti materiali attribuiti all’imputata Elisabetta Franchi siano tali da costituire reato, e di questi fatti l’imputata dovrà rispondere a giudizio”. Il processo avrà inizio il 26 novembre 2026, mettendo fine a una contesa legale che si è sviluppata per anni tra i veleni dei social network e le aule di tribunale.

I ragazzi fanno davvero meno sesso dei loro nonni? La Gen Z, le relazioni e l’Intelligenza Artificiale

La Generazione Z fa meno sesso ma mette in discussione tutto: il corpo, le relazioni, il consenso, perfino l’idea stessa di intimità. Un cambio di paradigma silenzioso ma radicale
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Niente sesso, siamo giovani. Parrebbe (e dico parrebbe perché, di anno in anno, escono sondaggi e studi con esiti diversi, tocca starci dietro come si può), insomma, parrebbe che i ragazzi della gen Z (13 – 28 anni), facciano poco sesso. Poco o nulla, a dirla tutta. Il Guardian ha pubblicato un maxi report con i dati del Centers for Disease Control and Prevention e risulta che, nel 2021, il 30% degli adolescenti affermava di aver avuto rapporti sessuali almeno una volta nella vita, rispetto al 38% del 2019 e con un enorme calo rispetto a tre decenni fa, quando più della metà dichiarava di aver avuto rapporti. Uno dice, sì ma lo studio riguarda gli Stati Uniti e invece tutto il mondo è paese, mai che un detto popolare sbagli: una ricerca pubblicata sul Journal of Sex Research esamina dati raccolti nell’ultimo decennio e relativi alla vita erotica di 180mila teenager in 33 nazioni. In 25 di queste nazioni il numero di giovani che riferivano di avere avuto un’esperienza sessuale si è sensibilmente abbassato, e non è aumentato in nessuno dei paesi presi in esame. Sicché, i giovani ritardano la prima esperienza sessuale. Pornografia? Pandemia? Lo vediamo poi. Fatto sta che, tra i ragazzi della Gen Z, un uomo su tre non ha mai fatto sesso con un partner, per le donne siamo a una su cinque (Kinsey Institute in collaborazione con Lovehoney). Potremmo citare altri studi ma il punto chiaro è che i ragazzi delle GenZ trovano il sesso – così come lo intentiamo noialtri, e attenzione che non è un dettaglio da poco – niente affatto fondamentale. E le domande si affollano nella nostra testa (di Millennial, o Gen X o quel che è): perché? Hanno capito qualcosa che alle generazioni precedenti è sfuggito? Lo fanno, sì, ma in modo diverso?

AH, LA MONOGAMIA

Sperimentano, amano senza distinzione di genere, e sognano la monogamia. Ce lo dice un sondaggio, sempre ripreso dal Guardian: i giovani della Gen Z idealizzano l’avere un solo partner per la vita. Un recente report dell’app di dating Feeld — che ha intervistato 3.310 persone dai 18 ai 75 anni in 71 paesi — ha scoperto che l’81% della Gen Z fantastica su relazioni monogame. “Fantasticare” non vuol dire volere ma sono dettagli: com’è il famoso modo di dire ‘stai attento a ciò che desideri perché potrebbe avverarsi?”. Non facciamo i vecchi avvelenatori di pozzi. Al contrario dei ragazzi, tra il 75 e l’80% dei Millennials, della Gen X e dei Baby boomer fantastica invece su relazioni aperte. ‘Quanta bellezza, quanta promiscuità”, ma dai 29 anni anni in su. O forse così bello non è? Perché se i Millennials e la Gen X preferiscono la non-monogamia etica (24% e 27%) e i Boomer preferiscono gli “amici di letto” (27%), la Gen Z parrebbe essersi stufata di parlare del poliamore. C’è un tweet diventato virale nel lontano 2022, nessuna memoria di ferro, lo ha ripreso Vogue India poco tempo fa: “Quando vedi una coppia in una relazione aperta, la vera domanda è: chi dei due l’ha proposta e chi dei due piange ogni notte?”. Secondo l’autrice del pezzo, Saachi Gupta, così la penserebbero i ragazzi, anche perché una buona percentuale non ha mai avuto una relazione seria con una persona, figuriamoci con più persone contemporaneamente. La Gen Z “subisce il fascino di quello che è più semplice anche perché da quando il dating si è spostato nel mondo digitale, è diventato sempre più complicato”. Quindi c’è bisogno di rassicurazioni. Il poliamore nasce per creare una struttura non gerarchica, dove l’amore non coincide con il possesso, solo che la non-monogamia, così come la vive oggi la Gen Z, finisce per riprodurre le stesse gerarchie, spesso a vantaggio degli uomini. Insomma, le relazioni aperte non sono soltanto divertimento e libertà e i più giovani parrebbero pensare che forse vale la pena sognare – almeno quello – un rapporto unico, che duri il più a lungo possibile. Non ci sono riusciti quelli più grandi di loro (i divorzi aumentano persino in terza età), ma chissà mai. Tra l’altro il sogno della monogamia porta con sé anche quello delle nozze perché secondo il Times solo il 21% dei giovani è d’accordo con l’idea che “il matrimonio sia irrilevante”, mentre vent’anni fa – tra i millennials – la percentuale era del 39%.

I RAGAZZI FANNO DAVVERO MENO SESSO DEI LORO NONNI?

Il Kinsey Institute e l’azienda di sex toys Lovehoney hanno messo insieme le forze per tirare fuori una classifica su ‘generazioni e sesso’ (immaginatelo pronunciato da Tony Effe).
Boomer (nati tra il 1946 e il 1964) —> fanno sesso 47 volte l’anno cioè 0,9 volte a settimana
Generazione X (45 – 60 anni circa) —> fanno sesso 62 volte l’anno cioè 1,2 volte a settimana
Millennial (27 – 44 anni circa) —> fanno sesso 73 volte l’anno, cioè 1,4 volte a settimana
Gen Z (13 – 27 anni circa) —> fanno sesso 36 volte l’anno cioè 0,7 volte a settimana

Ora, a parte le battute possibili sui decimi, parrebbe che in effetti i giovani facciano meno sesso dei loro nonni. Ma sempre nello stesso report si legge che quasi il 40% della Gen Z definisce sesso attività non penetrative. Sono lontani i tempi in cui fare sesso era indice di virilità o femminilità e persino una sorta di prova di normalità.

PORNOGRAFIA, PANDEMIA E TUTTO QUANTO

‘È praticamente ovvio’ che se si cerca un fattore principale e rilevante sul come mai i ragazzi della Gen Z abbiano una diversa considerazione del sesso e della sua importanza, quasi tutti dicano “eh, colpa della pornografia”. E invece – pur essendo importante rilevare che i ragazzi iniziano a guardare siti hard presto, troppo presto, tra gli 11 e i 13 anni – il peso del consumo di hard è del 15 o 20% (UCLA Porn & Youth, Kinsey Institute 2023, Common Sense Media 2022). Sì, è innegabile che la pornografia abbia un effetto inibitorio, creando una specie di ansia da performance, che sia ‘distorsiva’ rispetto ai corpi degli attori e delle attrici e che sia anche anestetizzante, perché la gratificazione è immediata. Ma ci sono altri fattori da tenere in conto. Ci sarebbe pure un modo di dire napoletano da usare all’uopo – chi sa sa – ma una delle prime cause che inibiscono la ricerca di rapporti fisici è l’ansia. Sempre lei, si traveste, cambia d’abito, ma si riconosce facile. La Gen Z vive l’atto sessuale come qualcosa che richiede stabilità emotiva, non come sfogo. Se non si sentono “sicuri dentro”, non lo fanno (fonti: Pew 2023–24, Gallup Youth Mental Health, UCLA 2022–25). Finito? No perché non va dimenticato che i giovani della Gen Z hanno passato un pezzo non irrilevante della loro età d’oro in casa, durante la pandemia di Covid. Sicché, due anni di socializzazione reale saltati a pie’ pari, aumento della dipendenza dagli spazi digitali, perdita o quantomeno ridimensionamento delle relazioni amorose in essere. Meno occasioni, meno sesso (fonti: UCLA COVID Social Development Study; Oxford Internet Institute). C’è un altro elemento, che cambia proprio il paradigma rispetto ai Millennial. Per la Gen Z l’atto sessuale è subordinato allo stato emotivo, non il contrario. “Se non mi sento al sicuro, non faccio sesso”, poche storie. Altro fattore, importante: la cultura del consenso. La paura di violare limiti senza accorgersene. O l’ansia perché una situazione non è così chiara. C’è tanta, tantissima strada da fare in materia di educazione sessuale – a partire dalle scuole – ma questi dati ci dicono che qualcosa si è fatto, che ci si muove nella giusta direzione su consenso e attenzione all’altro.

MENO SESSO MA ANCHE MENO INTIMITA’?

Ora vorrei dire, così gratuitamente, che Sesso Occasionale di Tananai non m’è mai piaciuta e non mi piace nemmeno ora ma quel “troviamoci una casa e non finiamoci più/Nel sesso occasionale” poteva evitarmi centinaia di parole. Tornando sul pezzo, pare che la Gen Z stia slegando l’idea di intimità da quella di sesso. Condivide paure, fragilità, orientamenti e identità. Come a dire, per noialtri che abbiamo ormai l’età dei datteri, l’intimità iniziava dal corpo, per loro dal linguaggio. Se la vicinanza emotiva diventa più importante del contatto fisico, è naturale che la soglia per il sesso si alzi. Qui torna in pista la monogamia, perché i ragazzi la sognano? Dentro un legame stabile, sicuro, silenzioso quando serve, il sesso può tornare ad avere un senso non come prova, ma come scelta? Per smorzare questo tono romantico va detto che la Gen Z è la prima ad avere a disposizione IA generativa e chatbot fin dall’inizio e a usarli spesso nella propria vita sentimentale. Come dire, l’Intelligenza Artificiale fa loro compagnia e dà loro consigli. Penseranno sia una forma d’amore? Speriamo di no, ma il discorso sarebbe lungo e non rimane che chiudere con una citazione sul sempiterno cambiamento delle relazioni sentimentali. “Pensai a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove uno va da uno psichiatra e gli dice: ‘Dottore, mio fratello è pazzo. Crede di essere una gallina’. E il dottore gli dice: ‘Perché non lo interna?’. E quello risponde: ‘E a me poi le uova chi me le fa?’. Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io delle relazioni tra uomo e donna, e cioè che sono assolutamente irrazionali e pazze e assurde, ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova”.

Goracci a La Confessione di Gomez (Rai 3): “Quando si poteva entrare a Gaza, le ong scavavano per far parlare i corpi. Oggi è una scena del crimine impunita”

Ospite stasera alle 20.20 la storica inviata di guerra del Tg3: "Se non si rende giustizia alle vittime, ogni pace è effimera"
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Prima ospite a “La Confessione” di Peter Gomez su Rai 3 in onda sabato 9 dicembre alle 20.20è Lucia Goracci, storica inviata di guerra del Tg3. “Lei ha visto da vicino decine di conflitti, quindi la domanda è questa: le guerre di solito si chiudono con una pace giusta o con una pace possibile?”, ha chiesto il conduttore. “Se non c’è una pace giusta, è effimera anche la pace. – ha premesso la giornalista, che dalla prima missione in Iraq nel 2004 non si è più fermata – Pensiamo a Gaza. Quando ho potuto, sia nel 2008 -2009, che anche nel 2014, raccontare la guerra di Gaza da dentro, i primi che ho visto arrivare erano Amnesty International, gli esperti forensi, gli esperti dell’Onu che hanno iniziato a scavare nelle macerie, – ha proseguito la reporter, tornata recentemente dal suo ultimo viaggio tra Israele e Cisgiordania – Hanno stilato le liste dei crimini di Hamas e di Israele, hanno fatto parlare quei corpi. Se questo non succede, cioè se non si rende giustizia alle vittime, ogni pace è effimera. Gaza è una scena del crimine e anche il confine russo-ucraino”, ha concluso Goracci.

DEMOCRAZIA DEVIATA

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È morto Frank Gehry, l’architetto che trasformò il titanio in poesia: il Guggenheim di Bilbao e la Casa Danzante di Praga tra le sue opere più celebri

Morto a 96 anni, è stato il padre del "Bilbao effect". L'architetto, che cambiò nome per l'antisemitismo, rimpiangeva di non aver mai lavorato in Italia
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Frank O. Gehry, uno dei talenti più formidabili e originali nella storia dell’architettura contemporanea, è morto a 96 anni nella sua casa di Santa Monica, in California. Il canadese naturalizzato statunitense si chiamava in realtà Ephraim Owen Goldberg, ma cambiò il suo nome nel 1954 per proteggersi dall’antisemitismo, un gesto che, già in gioventù, segnò la sua determinazione a forgiare la propria identità. Gehry è stato un “Borromini del Ventesimo secolo”, un architetto-scultore le cui creazioni in titanio e metallo ondulato hanno ridefinito lo spazio urbano globale.

Dopo aver studiato alla University of Southern California e ad Harvard, Gehry si affacciò alla scena internazionale nel 1978 con un progetto che fece scandalo: la sua casa a Santa Monica. L’architetto smembrò un modesto bungalow in “stile Cape Cod” e lo avvolse in una nuova pelle di materiali grezzi e scomposti: compensato, rete metallica e lamiera ondulata. La collisione di forme, grezza e persino violenta, sembrò catturare le fratture sociali dell’epoca, consacrandolo come una forza innovatrice. La casa fu così dirompente che i vicini avviarono una raccolta di firme per farla abbattere. Il critico Philip Johnson la descrisse con un’intuizione perfetta: si provava all’interno “una sorta di soddisfazione inquietante che non si prova in nessun altro spazio”.

Il punto di massima visibilità per Gehry, già premio Pritzker nel 1989, arrivò con il Guggenheim Museum di Bilbao, inaugurato nel 1997. L’esuberante composizione di volumi curvilinei, rivestita di titanio scintillante, sembrava sfidare la gravità. L’opera innescò il cosiddetto “Bilbao effect”, il modello urbanistico secondo cui un singolo edificio iconico può trasformare l’immagine e l’economia di un’intera città in declino. Da allora, nell’immaginario collettivo, l’architettura moderna si è divisa in due epoche: prima e dopo il Guggenheim. Il suo genio risiedeva anche nella tecnologia: il suo studio sviluppò l’uso di software derivati dall’aeronautica per la modellazione digitale, essenziali per elaborare le sue ardite geometrie decostruttiviste e portare al limite la dialettica tra stabilità e squilibrio.

Il suo portfolio globale è immenso. Tra le sue opere più note si contano la Walt Disney Concert Hall a Los Angeles, la Fondazione Louis Vuitton a Parigi (un edificio così etereo che sembra fatto di vetro soffiato, quasi un enorme vascello), e la Dancing House di Praga. Il suo approccio era sempre quello di un cardiochirurgo: come nel restyling del Museum of Fine Arts di Filadelfia (costato 233 milioni di dollari), Gehry affrontava l’interno dell’edificio per rimuovere gli ostacoli che bloccavano la circolazione.

Nonostante l’Italia fosse per lui un modello, con riferimenti all’architettura barocca di Borromini e Bernini, il Paese rimane uno dei suoi rimpianti professionali. Nel 2008 era stato coinvolto in un progetto a Salerno, ma ne uscì amaramente: “Si sono solo fatti pubblicità sfruttando il mio nome”, disse. Gehry, un divo a suo malgrado, ha lasciato una potente lezione ai giovani architetti: “Quando mi capita di incontrare i giovani architetti — aveva confessato — metto la mia firma su un foglio di carta, poi faccio mettere la loro e dico: ‘Non copiate la mia, date dignità alla vostra’”. Una ricerca di una strada unica che, per sua stessa ammissione, era in fondo solo “l’illusione di un momento”.