Federica Angeli e i cronisti minacciati hanno bisogno dello Stato

22 Aprile 2018

“Sono qui perché le istituzioni non devono mai lasciare soli i cittadini soprattutto quando si tratta di lottare contro la mafia.
Sono qui come sindaco della città per lanciare un messaggio forte e duro contro la malavita”.

Il sindaco di Roma Virginia Raggi in prima fila mentre la giornalista di “Repubblica” Federica Angeli testimonia contro il clan Spada di Ostia

Mi viene in mente una recente sentenza della Cassazione quando leggo del coraggio di Federica Angeli. Ha stabilito che anche le telefonate mute sono molestie e in qualche modo minacce. È capitato a molti, spesso a chi fa il nostro mestiere. Il telefono squilla. Pronto? Silenzio. Una, dieci, troppe volte finché si chiede un altro numero, possibilmente anonimo. Intanto però un tarlo ti accompagna.

Chi è? Cosa vogliono da me? Ti senti minacciato, spiato, sporcato da quella voce muta. Quando esci ti guardi intorno, cambi le tue abitudini e quelle dei tuoi cari. E magari prima di scrivere un pezzo che tratta delle malefatte di questo o di quello ci pensi bene. Ora, provate a moltiplicare questa intrusione per mille e avrete una pallida idea di ciò che Federica (la chiamo per nome anche se non ci conosciamo) ha dovuto passare. Di come, da anni, la sua esistenza sia stata stravolta. E quella della sua famiglia. E quella dei suoi figli ancora piccoli.

Per cosa, poi? Per non darla vinta ai criminali. Continuando a vivere lì, blindata, in quel quartiere di Ostia occupato militarmente dai mafiosi. Gli stessi che incroci per strada, nei negozi, delinquenti che ti sfidano con lo sguardo, con il sorriso dell’impunità. Che osano perfino intimidire tuo figlio perché non vogliono più leggere le inchieste che malgrado tutto continui a scrivere. Perché sanno che sai, che hai visto ciò che non dovevi vedere e non vogliono che testimoni contro la famiglia Spada. Finalmente alla sbarra. Federica ma chi te lo fa fare, pensa alla salute. Ma Federica ha tenuto duro, ha testimoniato, ha vinto la sua battaglia, che è anche la nostra se ci sentiamo Stato.

Che è quella dei tanti giornalisti che, soprattutto al Sud, in posti lontani dai riflettori della cronaca nazionale, vivono la quotidianità delle minacce. Dei soprusi. Dell’amico che ti mette la mano sulla spalla: ma chi te lo fa fare? Dei parenti che forse ti considerano un problema. Fino a che si scopre che qualcuno voleva farti la pelle. Penso a uno fra i tanti, al collega Paolo Borrometi cronista dell’Agi, colpevole di non essersi voltato davanti a “quelle” notizie. Di aver scritto, di averci informato. Per questo insultato e minacciato da un boss di Siracusa. Giornalisti che avrebbero bisogno della solidarietà, troppo spesso latitante, delle istituzioni. Di un sindaco come Virginia Raggi che ti si siede accanto.

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