L'indagine

Aborto, il ministero non pubblica (tutti) i dati sugli obiettori

Interruzione di gravidanza, una chimera - Sono almeno 22 gli ospedali in Italia dove il 100% dei professionisti dei reparti di ginecologia obietta. Una ricerca condotta per l’Associazione Luca Coscioni da Chiara Lalli e Sonia Montegiove fornisce una mappatura dello stato dell’applicazione della 194 in Italia. Con molti punti critici

8 Dicembre 2021

Se vivi ad Ariano Irpino (21 mila anime, di cui 10.700 donne a gennaio 2021, secondo l’Istat) e devi abortire in una struttura pubblica conviene girare direttamente la macchina verso Avellino o Benevento. Sono 40 o 50 chilometri, un’ora di strada. Nella Asl del comune montano Campano, infatti, gli otto ginecologi di ruolo sono tutti obiettori di coscienza. A Policoro, in Basilicata, nonostante nella Regione più della metà delle strutture sanitarie pubbliche (4 su 7) pratichino l’interruzione volontaria di gravidanza, nel reparto ostetrico dell’ospedale locale obiettano in otto su nove. A Roma, invece, quanti sanno che 25 dirigenti medici ginecologi su 30 del Policlinico Umberto I sono obiettori? E che al Sant’Eugenio, ospedale nella zona sud della Capitale, su 21 ginecologi in reparto solo 2 praticano l’Ivg?

In tutta Italia sono almeno 22 le strutture pubbliche, 18 ospedali e 4 consultori, dove il 100% dei ginecologi è obiettore di coscienza. In 72 ospedali gli obiettori sono più dell’80%. Considerando che sono circa 500 i nosocomi pubblici a livello nazionale significa il 14%. C’è almeno un ospedale con il 100% di obiettori in Abruzzo, Veneto, Umbria, Basilicata, Campania, Liguria, Lombardia, Puglia, Piemonte, Marche, Toscana. Però il ministero della Salute questi dati non li diffonde. La Relazione del ministero della Salute sulla legge 194/78 , infatti, non contiene le percentuali di obiettori delle singole strutture, ma soltanto dati aggregati su base regionale (oltre al fatto che è aggiornata solo al 2019).

I dati sono stati invece resi noti dall’Associazione Luca Coscioni, grazie all’indagine “Mai dati!” a cura di Chiara Lalli, docente di Bioetica e Storia della medicina all’università La Sapienza di Roma, e l’analista informatica Sonia Montegiove.

“La Relazione del ministero è una fotografia molto sfocata e poco utile, perché se voglio abortire una media regionale mi serve a poco, ho bisogno di sapere nel dettaglio quali sono le singole strutture sanitarie dove posso andare”, spiega Chiara Lalli. Per colmare il gap, Lalli e Montegiove hanno inviato a tutte le Asl locali una richiesta dati tramite accesso civico generalizzato, ottenendo con difficoltà e non sempre le risposte che cercavano. “Alcuni territori hanno risposto con rapidità, altri un po’ più pigramente. Poi c’è chi non ha risposto per niente e chi, con più o meno garbo, ha rifiutato di comunicarci i dati per ragioni che vanno dalla privacy al Covid”. In alcuni casi, inoltre, i dati sono incompleti: “Una Asl ci ha mandato un numero secco, senza darci riferimenti sul totale di operatori sanitari della struttura. Forse è solo un modo per fingere di aver risposto”.

Per questo, al momento, la raccolta dati ha potuto coprire solo il 70% delle strutture nazionali. Le regioni più evasive sono la Sicilia e la Sardegna: hanno mandato un riscontro solo una Asl siciliana su 9 e 3 Asl sarde su 11. Lalli e Montegiove hanno ripreso a inviare richieste per raggiungere il 100% di copertura nazionale, ma già ora il loro lavoro apre lo spazio per una richiesta politica: “Serve un osservatorio permanente, è impensabile fare accessi civici ogni 3 mesi. Per rispettare il principio della Relazione sullo stato di applicazione della 194 il ministero dovrebbe garantire dati aperti in tempo reale. I dati aperti non sono una concessione, ma un nostro diritto”.

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