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Il salario minimo è un argomento tabù, ma soltanto in Italia

20 Ottobre 2021

In Germania, dopo le elezioni, uno dei punti cardine del nuovo contratto di governo è l’aumento del salario minimo. Da giorni Spd, Verdi e Liberali stanno discutendo un testo in cui si prevede che da subito la paga dei lavoratori più poveri salga a 12 euro l’ora. In Italia, invece, il salario orario minimo non c’è mai stato e ancora non c’è. Così, da noi, quattro milioni e mezzo di persone percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora, due e mezzo meno di 8 euro e 360mila vengono pagate così poco da dover integrare le loro entrate con il Reddito di cittadinanza. Detto in altre parole, il nostro Paese è pieno zeppo di gente che arriva a stento a fine mese pur spezzandosi la schiena da mattina a sera.

In genere si tratta di cittadini e cittadine che vivono nei sobborghi delle città. Fanno i lavori più vari e umili, spesso legati alle pulizie, alla vigilanza o i servizi di portierato dove, in alcuni casi, sono in vigore contratti non rinnovati da anni – o pirata – che garantiscono anche meno di 5 euro l’ora.

La situazione non è solo moralmente inaccettabile per un Paese come il nostro in cui la ricchezza privata in altre fasce della popolazione abbonda. È pure economicamente e politicamente folle. Chi lavora ed è così indigente non consuma e non favorisce la crescita; a volte è spinto all’illegalità per ragioni di sussistenza e sempre è legittimamente adirato nei confronti delle classi dirigenti. Tutte: da quelle politiche a quelle sindacali, passando ovviamente per i datori di lavoro.

In questo scenario sarebbe logico aspettarsi che partiti e movimenti di qualsiasi colore politico avessero al primo posto la questione salariale. Ma non è così. Quando si sottolinea che il salario orario minimo esiste in 21 Stati dell’Unione europea su 27 salgono sempre in cattedra i benaltristi che, spalleggiati da quasi tutti i sindacati, spiegano come la questione da affrontare sia diversa. Per loro è meglio avere dei buoni contratti nazionali di categoria o spingere su una forte riduzione del cuneo fiscale (cioè la differenza tra quanto spende un’azienda per ciascun dipendente e quello che invece viene erogato in busta paga). Tutto giusto. Tranne che per un non irrilevante particolare. In attesa che il meglio si realizzi, come affrontiamo milioni di persone che lavorano e fanno la fame? Diciamo loro di aspettare ancora? O attendiamo che scendano un giorno in piazza tutti assieme per metterci poi a gridare: mamma mia, sono tornati i populisti?

Proprio ieri in Commissione Lavoro del Senato è iniziato l’esame di una proposta di legge, firmata dall’ex ministro Nunzia Catalfo, che prevede un salario orario minimo di 9 euro lordi e che nessun contratto di categoria possa scendere sotto questa cifra. Cosa intendono fare i partiti?

Il Pd, a cui la proposta in teoria non dispiace, si ricorderà che oltre ai sacrosanti diritti civili esistono pure quelli sociali? Matteo Salvini rammenterà che il salario minimo nel 2017 lo voleva pure lui o si metterà di traverso come fece nel 2019 quando si trattava di far cadere il governo gialloverde? Giorgia Meloni butterà la palla in tribuna sostenendo, come ha fatto più volte, che prima vanno aumentati i compensi (certamente magri) delle forze dell’ordine?

Tutti loro dovrebbero partire da un dato. L’Ocse ci dice che l’Italia è l’unico Paese europeo in cui i salari medi sono diminuiti rispetto al 1990. Chi lavora sottopagato lo sa bene e alle ultime Amministrative ha scelto l’astensione. Alle prossime, temiamo, potrebbe scegliere gli schiaffi. Qualcuno in Parlamento lo ricordi.

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