L’arte della guerra (in tempo di pace)

2 Febbraio 2021

Cinquecento anni fa, usciva a Firenze, per gli eredi di Filippo Giunta, Dell’arte della guerra, l’unica grande opera politica di Machiavelli, che vide la luce quando l’autore era ancora in vita. I libri che lo hanno reso famoso, Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, furono stampati dopo la sua morte (1527), nel 1532 e nel 1531.

La scrisse fra il 1519 e il 1520, incoraggiato dai giovani aristocratici fiorentini che frequentavano gli ‘Orti Oricellari’, il cenacolo intellettuale che si riuniva nei giardini di Palazzo Rucellai. In quei giovani – alcuni memori della predicazione di Savonarola, altri di fervide idee repubblicane, altri ancora, come Lorenzo di Filippo Strozzi, a cui Machiavelli dedica il libro, sostenitori dei Medici, tutti amanti della cultura classica e impazienti di coniugare gli studi umanistici e l’impegno civile – Machiavelli, già avanti negli anni (era nato nel 1469), crede di trovare animi generosi capaci di tradurre le sue idee in concrete riforme istituzionali e in nuovi e migliori ordini militari.

L’Arte della Guerra rinfrescò la reputazione di esperto di cose militari che Machiavelli aveva già consolidato quando, Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica Fiorentina dal 1498 al 1512, seguiva la politica estera. In quegli anni aveva accumulato una notevole esperienza su tutti gli aspetti dell’arte della guerra: aveva scritto relazioni dettagliate sull’organizzazione, l’armamento, le dimensioni, il morale dei più importanti eserciti del suo tempo; per due mesi, nell’estate del 1500, aveva accompagnato i commissari fiorentini che governavano le operazioni militari contro Pisa; nel 1502 era andato in missione presso il duca Valentino, Cesare Borgia, eccellente comandante; più volte fu inviato al campo che i Fiorentini avevano messo attorno a Pisa per soggiogarla; nella speranza di liberare Firenze dalla piaga delle milizie mercenarie, persuase i governanti fiorentini a istituire una milizia composta da sudditi del contado; aveva seguito di persona l’addestramento degli uomini destinati a far parte della milizia e aveva scelto i capitani; partecipò attivamente alle operazioni militari che portarono alla conquista di Pisa (4 giugno 1509); fino agli ultimi mesi del governo popolare cercò di reclutare fanti e organizzare la milizia a cavallo. Nell’Arte della Guerra aveva dunque distillato la sua diretta esperienza, ripensata, come in tutte le sue opere politiche, alla luce degli storici antichi e moderni.

Grazie al rinnovato prestigio come esperto di cose militari, e all’aiuto di Lorenzo di Filippo Strozzi, Machiavelli ottiene, nell’aprile del 1526, l’incarico di provveditore e cancelliere dei Procuratori delle mura di Firenze, con l’esplicita indicazione di rafforzare le difese della città in vista dell’attacco delle milizie di Carlo V. Oltre a favorire il suo ritorno in Palazzo Vecchio, l’Arte della guerra rafforzò la sua fama post mortem. Ristampata ventuno volte nel Cinquecento, fu tradotta in francese, inglese, tedesco e latino. Sulla sua reputazione pesò tuttavia la storia che raccontò Matteo Bandello (1485-1561) frate domenicano, cortigiano e novelliere di buon valore. Nell’estate del 1526 Machiavelli era in missione, per conto di Francesco Guicciardini, presso Giovanni de’ Medici, il comandante militare che più di ogni altro ammirava. Incoraggiato dal condottiero, Machiavelli provò a ordinare le truppe secondo gli schemi che aveva descritto nell’Arte della guerra e che parevano buoni e facili da applicare. Sulla carta. Sul campo le cose andarono però in maniera diversa. “Messer Niccolò”, scrive il Bandello, “quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinare tre mila fanti secondo quell’ordine che aveva scritto, e mai gli venne fatto di potergli ordinare”. A por fine al tormento intervenne Giovanni de’ Medici. Disse a Machiavelli di mettersi da parte e lasciar fare a lui. In un “batter d’occhio”, con l’aiuto dei tamburini, Giovanni ordinò quelle genti in vari modi “con ammirazione grandissima” di chi assisteva alla prova. La storia dimostra, commenta il Bandello, “quanta differenzia sia da chi sa e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltra il sapere ha più volte messo le mani, come dir si suole, in pasta”.

Ma non è per imparare come schierare e muovere truppe che dobbiamo rileggere l’Arte della guerra. Il più utile insegnamento che Niccolò ci ha lasciato è l’aureo principio “amare la pace e saper fare la guerra”. Una repubblica che vuole rimanere libera ha bisogno di buone leggi e di buone armi. Senza buone forze armate le repubbliche si corrompono, come “l’abitazioni d’uno superbo e regale palazzo, ancora che ornate di gemme e d’oro, quando, sanza essere coperte, non avessono cosa che dalla pioggia le difendesse”. E buone sono le forze armate formate da ufficiali e soldati che la guerra, compresa ai nostri tempi la guerra al terrorismo, la sanno fare, ma non cercano di turbare “la pace per avere guerra”.

Altrettanto utile è l’esortazione a non dimenticare che la vita civile e la vita militare devono essere “unite” e “conformi” l’una all’altra. Chi porta le armi non è al di sopra della Costituzione e delle leggi. È tenuto a rispettare e a difendere l’una e le altre. Ha doveri di lealtà e di disciplina più rigorosi di quelli ai quali sono tenuti i cittadini che non servono la patria in armi. Pare proprio che la nostra Costituzione abbia voluto tradurre in norma la saggezza di Machiavelli quando ha stabilito che “L’ordinamento delle Forze armatesi informa allo spirito democratico della Repubblica” (art. 52).

Ma da leggere è soprattutto la pagina in cui Machiavelli auspica che i giovani che leggeranno i suoi scritti possano aiutare l’Italia a rinascere dalla corruzione e dalla servitù: “Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai tempi debiti, in favore de’ vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura”. Sarebbe bello, se queste fossero le parole di una profezia che si avvererà, come si è avverata in passato.

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